Una buona reputazione
A good reputation

Reputazione non significa immagine: le immagini possono contribuire a crearla, anzi a questo fine strumentale (tecnologico) sono essenziali, ma esse non bastano a trasformarsi in reputazione. per quanto avere una immagine, disporre di un abito, abbia a che vedere con la possibilità di percepire un individuo o un apparato o una marca (e la percezione è sempre un rispecchiamento reciproco, una relazione asimmetrica ma comunque una relazione), proprio per questo e al di là di questo la reputazione pretende qualcosa che non riguarda soltanto il farsi vedere e l’essere visti, ma riguarda – e sempre di continuo riguarda, torna a guardare, toccare, investire – il sentire, la sua estensione e intensità di campo. Dunque uno spazio relazionale fondato sulla fiducia e sulla partecipazione dei suoi attori reali e immaginari. Insieme reali e immaginari: quindi un territorio che è al tempo stesso materiale e immateriale, concreto e astratto. 

 

Illustrazione di MAT

Messe così le cose – appunto di predisposizione si tratta – è necessario che, prima di parlare di reputazione, si sia in grado di valutare le condizioni dei dispositivi culturali, meglio dire socio-antropologici e simbolici, che in un determinato ambiente (nella cerchia degli affetti familiari e amicali così come nella cerchia dei gruppi sociali e della loro vita quotidiana, locale, nazionale e globale) sono in grado di funzionare, agire, fare pratica del mondo. In grado di andare nel senso, senso come direzione e sensibilità, della fiducia che serve; c’è infatti di mezzo proprio il rapporto politico tra servo e padrone, la doppiezza enigmatica, originaria, del potere, del dominio. La fiducia è un artefatto emotivo che serve a condividere, mettere in comune, valori e aspettative individuali e collettive. 

Cosa dunque rappresenta avere oggi o tentare di avere una buona reputazione? È bene cercare di rispondere a questa cruciale domanda sapendo che essa – la reputazione – significa l’acquisizione di una qualità tutta particolare, risultato di un continuo processo di negoziazione e rinegoziazione; un patrimonio che di certo non si conquista per mezzo di un solo evento – adatto semmai a produrre miti e aureole ma non un processo, non la garanzia di una disponibilità incondizionata, di una apertura all’altro che vi si voglia e possa intrattenere. Un evento è adatto semmai a produrre potere ma non potenza. Una catena di eventi non è di per sé dinamica: a creare una reputazione è ciò che riempie i vuoti tra un evento e l’altro. È in questi vuoti, in questo vuoto, che la vita quotidiana continua a sopravvivere. Mentre invece la comunicazione pubblicitaria in senso stretto, ma anche l’insieme della comunicazione di impresa, sembrano più spesso determinate a oscurare il vuoto – la sua domanda di altro – piuttosto che correre il rischio di farne esperienza. a coprirlo dei propri contenuti, piuttosto che servirsene per farli tacere. per farli cadere nel silenzio. 

Solo pochi anni sono trascorsi da quando, in una mia prefazione a un saggio di Luigi Mariano (Responsabilità etica d’impresa. Teorie e buone pratiche, Liguori 2007), mi era parso, pur con qualche sforzo, di potere coniugare tra loro in modo pacifico i bisogni dell’Impresa (sono essi tattiche o strategie, arbitrio della necessità o del desiderio?) e l’ambiente sociale in cui tali bisogni si manifestano nella forma rovesciata di offerta, di promessa tangibile, realizzata. Eccedendo in dialettica, arrivavo a “cogliere il forte rapporto – del tutto eccentrico, sicuramente trasgressivo, anticonvenzionale – che qui, proprio ai bordi della pubblicità tradizionale, si instaura tra comunicazione commerciale e interesse sociale, tra promozione del prodotto e promozione dell’uomo, tra profitto economico e ridistribuzione delle risorse, tra l’opportunismo di chi vuole vendere e l’altruismo di chi vuole donare, tra lo spirito del Mercante, lo spirito del principe e il sentimento popolare. tra tattica e strategia, e tra sfruttamento e progetto”. 

Pochi anni sono passati, ma da allora ad oggi abbiamo assistito ad una catastrofe globale di portata straordinaria, cioè fuori di ogni ordine. Di ogni ordine della società moderna, passata e presente: dei suoi modelli economici e politici, dei suoi valori individuali e collettivi. Dei suoi conflitti materiali e immateriali, ideologici. all’euforia per un salto altrettanto clamoroso e travolgente delle forme di comunicazione – il transito dai linguaggi analogici della civiltà di massa ai linguaggi digitali della civiltà post-industriale; dai media delle identità collettive ai personal-media di identità in frantumi, troppo forti e/o troppo deboli rispetto agli equilibri dei rapporti nazionali e internazionali “classici”, conformi allo spirito degli stati nazionali e delle classi sociali – non è corrisposta un’epoca di rinascita dei contenuti espressi dai processi di civilizzazione e occidentalizzazione del mondo. anzi mai come oggi si è data la piena dimostrazione della crisi di reputazione di quanti detengono posizioni di responsabilità: gruppi, apparati, istituzioni, imprese, movimenti. 

 

Il banco dei pegni in un’illustrazione del ‘700. (http://venezia.myblog.it)

Crisi di reputazione che colpisce il mondo e non soltanto l’Italia. Importante capirlo, dal momento che ad affrontare il problema della perdita di reputazione del nostro sistema nazionale in modo per così dire provinciale (esiste un provincialismo cosmopolita, ed anzi lo sguardo provinciale è forse uno degli ingredienti storici del cosmopolitismo come ideologia e come stile intellettuale) sono in particolare, e con non poche ambiguità, proprio coloro che appartengono ai suoi più riconosciuti settori di punta, di eccellenza (design, moda, lusso, arte, loisir, creatività urbana). proprio gli scrittori e lettori di riviste come questa. per parte mia, credo invece che insistere sul nostro degrado nazionale (da quando?), presentandolo come una anomalia, una deviazione dal novero delle altre nazioni economicamente più forti e politicamente più sviluppate, ha il difetto e il torto di fare credere che le culture egemoni di queste nazioni – massima espressione dell’occidente – siano per noi l’obiettivo da raggiungere, mentre invece la portata della crisi globale in cui stiamo precipitando mostra che, a venire meno in modo davvero irreversibile, è proprio la capacità di traino dei loro stessi modelli. Il loro crollo è una apocalisse, cioè la rivelazione del loro contenuto e della loro storia. 

Alla eclissi di credibilità della più parte dei protagonisti dei regimi democratici e dei sistemi di mercato, e al conseguente calo di fiducia nella loro immagine (quanto più pubblicamente esibita), partecipano anche, come reazione opposta, forme di fiducia spinte al massimo: tanto in eccesso da trasformarsi in speranza incondizionata e gioco d’azzardo. Tali sono le fiammate di consenso ottenute o tentate sul fronte delle politiche populiste. E tali sono le passioni accese dai social media digitali, in direzioni che, a seconda dei contesti geopolitici e socioculturali, vanno dallo spirito insurrezionale a quello utopico. Più in generale: per un verso la digitalizzazione del mondo e le biotecnologie sembrano offrire la fantasmagorica promessa di una “realtà aumentata”, quindi una potenza – sovranità, auctoritas – già davvero disponibile, a portata di mano, e del tutto impensabile con le precedenti tecnologie; per altro verso si è aperta una terribile scissione tra la esasperata pretesa di autorità delle forme di dominio sociale e l’effettiva reputazione dei loro gruppi dirigenti. alla crescita dei new media, delle loro pratiche dal basso e dall’alto (con effetti virali di velocizzazione delle relazioni di potere e dei conflitti, di massima turbolenza, di instabilità sociale e di conseguenti spinte reazionarie), corrisponde la perdita di reputazione di chi governa l’economia e la politica, ma anche le istituzioni del sapere, della ricerca e formazione professionale: gli apparati che hanno o meglio avrebbero dovuto avere la funzione di creare nuove classi dirigenti. 

Sono questi i motivi sostanziali per cui non posso più condividere l’ottimismo o quantomeno la credibilità di quanto mi è accaduto di scrivere nel 2007, anno di vigilia di un tracollo finanziario che sta producendo una vera e propria regressione sociale, tanto più se vista sulla base dei valori di cui la modernità si è servita per costruire il proprio mito positivo, salvifico. Le sue retoriche della felicità. Le sue estetiche dei consumi. E quindi mi sembra che anche la prospettiva con cui sono qui chiamato a collaborare debba sapere mettersi in discussione. Rileggiamo gli obbiettivi di questa prospettiva: “Negli ultimi anni le strategie aziendali si sono sempre più orientate ad ottener valore non soltanto dal profitto economico, ma anche attraverso la ricerca di un corretto bilanciamento delle aspettative dei diversi pubblici con cui l’impresa intreccia relazioni quotidiane. La questione centrale diventa la definizione effettiva del valore: se si quantifica puntualmente il valore economico, restano incerte le qualità del valore ambientale e del valore sociale, così come la loro misurazione. L’attuazione della responsabilità sociale di impresa e le conseguenti opere filantropiche per il bene della comunità rappresentano un potenziale “contenuto emozionale” che l’impresa utilizza, associandole alla propria immagine, come valore aggiunto in grado di differenziare, posizionare e conferire competitività”. 

Lo dico a modo mio: il valore economico non è al centro di un oggetto di interesse sociale – o meglio dire territoriale, per non rischiare di concepire il consumo, il mercato e le merci come qualcosa di separato dal sociale e di contrario al cittadino o all’umano. Questo valore va calato nella certezza (certo è ciò che è deciso, diviso dai conflitti che lo attraversano) di una rete di relazioni (l’inter-essere contrasta ogni costituzione fondata sull’individualismo, sulle sue prospettive verticali e lineari) in cui ogni punto di incrocio è insieme centro e periferia di complesse negoziazioni sociali. Ma, ad evitare un eccesso di utopia, va aggiunto che l’idea di una viva compenetrazione tra la sfera dei bisogni economici e quella dei bisogni sociali (idealmente e ideologicamente considerati come bisogni umani) non è riconoscibile come un principio – origine, valore o fine che si voglia intendere – ma piuttosto come un continuo configgere tra le due sfere. Un massacro, una violenta e dolorosa, mortale, ferita della carne degli esseri umani e delle cose per mezzo delle quali essi sentono il mondo. Ragione per cui non può esservi mai nessuna riconciliazione e armonia tra l’economico e il sociale se inteso come il suo contrario e il suo controllore. Solo conflitti, tensioni e passioni. 

 

Illustrazione di MAT

Nulla – se non la duplice falsa coscienza che si nasconde nell’uso che noi moderni facciamo tanto delle ideologie affermative quanto di quelle negative – può spingerci a obiettare, contestare le pratiche di convergenza tra responsabilità di impresa e responsabilità sociale: infatti tutte le nostre professioni, ogni nostro lavoro e divertimento, appartengono alla violenza che le buone intenzioni umanitarie di tali pratiche comportano: quella violenza che il contratto sociale ha fatto propria per distinguerla da quella inumana della Natura. Ne faccio io stesso parte nello scriverne ora e qui. Voi nel leggermi. Nulla da obiettare dunque, su queste pratiche se non la necessità di ripensarle alla radice, di prenderne le distanze pur essendo costretti a esercitarle. A servirle. Tutto bene, se non fosse che gli attori in grado di portare avanti un progetto siffatto non ci sono. Non ci sono né quelli capaci di interpretarlo in modo disincantato – sarei tentato di dire in modo filosoficamente cinico – né quelli capaci di interpretarlo con rinnovata convinzione e decisione. Non possono esserci, date le condizioni di crisi sistemiche in cui siamo e a lungo saremo obbligati a operare. Non ci sono perché la tarda modernità ha cessato di creare classi dirigenti e soprattutto non ne dispone ora che sarebbero necessarie per affrontare la propria catastrofe. L’assenza di risorse investite sulla ricerca e sulla formazione (o il loro cattivo uso: prigioniero dei propri stereotipi e dei propri committenti pubblici e privati) è stata così lunga che, anche riprendendosi dal suo lungo sonno, potrebbe disporre di nuove classi dirigenti soltanto tra vari anni e cioè gli anni necessari a rifondare i contenuti della scuola e dell’università. Questa, nelle sue zone di eccellenza, crede di avere raggiunto un salto di qualità, pensando ancora di dovere soddisfare i bisogni dell’Impresa invece che produrre lavoro intellettuale attrezzato a trasformarla. Crede di dovere creare professionisti invece di classe dirigente. a questo punto il problema della reputazione va affrontato ripensandone i contenuti e non le forme di ostentazione. 

Il discorso deve tornare a trattare i contenuti che, in processi di lunghissima durata, soltanto adesso sono culminati in tutta la loro tragicità, e che la modernizzazione ha “ficcato” dentro il significato della parola reputazione: contenitore ed anzi “corazza” di una tradizione umanista che è andata attrezzandosi e perfezionandosi nel tempo lineare delle religioni giudaico- cristiane e infine nelle religioni di stato, di classe e di partito. Dunque anche dei valori della cittadinanza e della democrazia, dei conflitti sociali e delle ideologie. Credo davvero che non si possa continuare a ragionare sui temi oggi di moda quali creatività urbana, solidarietà sociale e ambientale, innovazione e vita quotidiana, mercati e sostenibilità delle risorse materiali o immateriali che siano, tornando sempre di nuovo a basarsi sui valori del modernismo e del progressismo. 

Lo zoccolo irriducibile della tradizione moderna – dei suoi soggetti e dei suoi interessi, delle sue estetiche ed etiche – non si supera con gli espedienti del post-modernismo e del pensiero debole. Lo spirito del progresso come violenza sulla vita delle cose e insieme con esse dell’essere umano, carnefice e vittima di se stesso, non si supera attribuendo una vocazione di per sé liberatoria o rivoluzionaria alle innovazioni dei linguaggi virtuali e della società delle reti; i deliri dei consumi non si superano con la repressione dei bisogni in cambio della sopravvivenza dei deliri del potere. La sfida è quella di mettere in gioco la negazione e non la rinascita del pensiero rinascimentale; la negazione e non il ritorno di vocazioni identitarie fondate sul pensiero religioso delle narrazioni occidentali. 

L’umanesimo non può più funzionare né come ricostituente della società né come cura. 


[english]

Reputation does not mean image: images can contribute to building a reputation, and, while they are an essential (technological) tool to achieving this aim, they are not enough to transform themselves into a reputation. For however much having an image, a suit, can be linked to being able to perceive an individual, an item or a brand (and perception is always a reciprocal mirroring, an asymmetrical relationship that is, nonetheless, a relationship), a reputation demands something which goes beyond just appearing and being seen (over and over again, touched and creating a certain impact), it has to do with feeling, its extension and the intensity of its range. It is, therefore, a relational space based on the trust and participation of its real and imaginary players. a real and imaginary whole: a territory that is both tangible and intangible, concrete and abstract. (…) What does having or striving for a good reputation mean? We should answer this crucial question well aware that it – a reputation – means acquiring a very special quality, the result of a continuing process of negotiation and renegotiation; it is not something you earn thanks to a single event – which is perhaps useful for creating myths and halos but not a true process, it is not an assurance of unconditional appeal, of an opening towards another with whom we want to or even can establish a relationship. An event may be able to produce power, but not potency. A chain of events is not, in and of itself, dynamic: what makes a reputation is that which fills in the gaps between one event and another. It is in these gaps, in this gap, that daily life continues to survive, whereas advertising in the purest sense, but also corporate communications as a whole, more often than not seems to obscure the gap – its demand for something else – rather than run the risk of learning something from it. It tries to cover it with its own content rather than use it to silence it. 

I truly believe that we cannot continue to grapple with today’s trendy topics such as urban creativity, social and environmental solidarity, innovation and daily life, markets and the sustainability of material or immaterial resources by always returning to base ourselves on the values of modernism and progressivism. (…) The challenge is to put denial into play, and not the rebirth of Renaissance thought; denial and not the return of a vocational identity founded on the religious ideas of western thought. Humanism can no longer serve as a tonic, if you will, for society, nor as a cure. 


(Tratto da/from: NB. I linguaggi della comunicazione, Il valore dell’impresa, N.1, Anno IV, Logo Fausto Lupetti Editore, Milano 2012.)