Abbiamo finora ascoltato dotte relazioni come quella di Marc Augé o come l’ultima di George Ritzer. Relazioni apprezzabilissime, che condivido. Ma il problema è che ognuno finisce per trovarsi ridotto e circoscritto all’interno di determinate esperienze, o comunque, di una cultura specifica. Quando invece la questione che oggi ci proponiamo di affrontare è la forma della città e la forma delle leggi che la governano, come pure la forma della cultura dei suoi cittadini: un tema che solo secondariamente, e minimamente, è riconducibile alla forma plastica degli edifici. Osservando come si comporta la gente (come vota, cosa fa, cosa guarda, come vive…) dico subito che la gente non è affatto stupida.
E, mettendo in discussione la totalità delle forme di insegnamento attuali – dalla primaria a quella liceale e, ahimè, fino a quella universitaria – dico subito che noi ci trasciniamo nel DNA la capacità di interpretare la forma. Non è una capacità che deriva dagli ultimi due
o tre mila anni di cultura, ovvero da quando si scrivono i libri. Essa è il risultato di oltre un miliardo di anni di evoluzione, quella in cui si è formato il nostro cervello. Un cervello che ha come obiettivo principale quello di far sopravvivere l’organismo che dirige e, quindi, di far fronte alla complessità del mondo. La stessa capacità che permette a un topolino, come a un qualsiasi altro animale, di decidere molto rapidamente cosa fare, come fuggire o come aggredire. Il nostro cervello si è sviluppato così. E, al di là dei lettori di libri di fantascienza degli imbecilli che immaginano di colonizzare la galassia, noi siamo esattamente questa cosa.
Quindi possediamo tutti quanti la capacità di capire e di auto-istruirci, osservando le cose e osservando i comportamenti delle persone. Su questo non c’è ombra di dubbio. Lo si può verificare osservando i primi mesi, o il primo o il secondo anno di vita di ogni bambino: egli non sa nulla, non ha la concezione del tempo e dello spazio, non conosce i propri organi, non conosce nessuna parola. Ma da solo, attraverso il procedimento prassi/teoria, conquista il mondo. Tanto che, paradossalmente, ho più volte affermato che tutti i bambini che compiono due anni dovrebbero essere insigniti del Premio Nobel! Perché lo sforzo di intelligenza e il mistero di questa capacità che risiede in ogni bambino è di gran lunga superiore a quella di qualunque Einstein.
Tutte le persone hanno queste possibilità, ma le sviluppano non tanto per merito dell’educazione impartita, quanto attraverso l’osservazione del reale. Non sto dicendo che l’educazione è tutta sbagliata e inutile. Ma nemmeno dobbiamo illuderci che, di per sé, l’educazione valga davvero. Un bambino come si evolve? Si evolve non con le chiacchiere del padre o della nonna o della maestra d’asilo; si evolve e capisce il mondo studiando i comportamenti altrui, osservando le cose. In Italia, ad esempio, si parla sempre della componente mafiosa del Paese. Ebbene, ho avuto qualche esperienza nel Sud e ho compreso che questa componente mafiosa non riguarda soltanto i comportamenti ascrivibili al codice penale, ma anche molti dei comportamenti delle persone per bene. è una natura molto profonda, che ho potuto rintracciare anche nell’eccesso di familismo da parte di gente che si ribella con sincerità alla mafia.
Leggendo i giornali o guardando quella sorta di parlamento politico che ormai è diventata la televisione scopriamo che tutto è diventato una cattedrale di consumo. Ma come mai la gente si comporta così? Come mai segue parole-sogno che non corrispondo a nessuna realtà? Come mai, in tutto il mondo, la gente insegue il sogno del Personal Computer? Il computer è certamente una macchina potentissima: uno strumento che, alla stregua di un motore o di un cacciavite, in certi casi può rivelarsi utilissimo. Ciò che è sbagliato è il sogno del Personal Computer come dispositivo che illude qualsiasi ignorante di saper fare di tutto! è sbagliata l’idea che si possa vivere senza contatto sociale. La democrazia è delega.
Tutti noi, se dovessimo scegliere un medico per un parente ammalato, non lo cercheremo certamente su internet o sulle pagine gialle: nei limiti delle proprie capacità economiche e delle proprie conoscenze, faremmo una accurata indagine chiedendo l’aiuto di persone competenti. Io stesso, nonostante l’antropologia sia una delle culture a cui sono più vicino, non ho la pretesa di definirmi antropologo: mi occupo di capire cos’è la forma, l’estetica. Così, nella necessità di approfondire un aspetto antropologico, non decido di compiere una ricerca affidandomi alle centocinquantamila voci che riguardano l’antropologia su internet: con quale criterio? Posso costruire un percorso di studio basandosi solo sulla quantità delle informazioni? Piuttosto, chiederò a Marc Augé o a chi, come lui, ha dedicato una vita intera allo studio di questa disciplina.
Ho esordito con il dire che non vi dobbiamo insegnare nulla. Più realisticamente, visto che alcuni di noi passano tutto il loro tempo a riflettere sulle parole e sulle idee, quello che in queste giornate di convegno possiamo provare a fare è fornirvi qualche parola utile.
Come possiamo uscire dalla situazione in cui si trova la città? Certamente non da soli. Nessuno, da solo, può dare una sola risposta alla globalità dei problemi.
Nonostante le università di tutto il mondo si articolino in centinaia di corsi di studio, non esiste un luogo dove si persegua, con strumenti meno intuitivi o paradossali dei miei, una cultura davvero globale. Senza dubbio è una difficoltà enorme, perché parlare della cultura globale è come parlare di Dio: significa parlare dell’infinito. E non sarà mai possibile arrivarvi compiutamente. Ma nemmeno possiamo illuderci di risolvere la complessità del reale affidandosi a regole da manuale. I manuali sono sempre scadenti perché, per essere facilmente comprensibili, banalizzano i problemi, semplificando e schematizzando le cose. Ma sapere che esiste la globalità, esiste un oceano dell’infinito, che forse si può costeggiare, è vitale per attuare qualche decisione di progetto. E sottolineo di progetto, e non di conoscenza o di ricerca. Per anni, ho tenuto lezioni nelle facoltà di architettura o di design, come nelle accademie di Belle Arti, dove gli allievi più attenti tendono, sulla scorta anche dell’influenza delle cattedre più oneste, a produrre ricerca. Così preparano delle tesi con migliaia e migliaia di dati, e io ho sempre reagito brutalmente. è chiaro che un progetto esprime qualità nei limiti in cui ha prodotto ricerca: per progettare bisogna ricercare e guardare soprattutto alla storia passata. Tuttavia, vi ho parlato della necessità di costeggiare l’oceano del globale. E siccome so che la ricerca, per sua natura, è diseconomica poiché qualsiasi avanzamento implica sempre nuove domande, l’interesse deve concentrarsi sul progetto. Un progetto deve essere realizzato in tempi storici, nell’arco di una vita, nell’arco dei dieci anni, perché altrimenti mutano tutte le condizioni economiche e sociali che lo hanno motivato.
Il progetto ha a che fare con il tempo. è una decisione altra da tutta la conoscenza del mondo. è bene avere una propedeutica generale di conoscenza del mondo, sapere che esistono infinite strade da poter intraprendere. Ma non posso produrre tutta la ricerca della descrizione del nome di Dio. Dunque, per prima cosa, è necessario decidere in quale direzione andare.
La prima protesi che l’uomo realizza ai fini della propria evoluzione, non è il fuoco, non è l’amigdala, ma la parola. E il saper contare è la protesi della parola. Un linguaggio che accomuna tutto il genere umano. Le parole si distinguono in sostantivi, verbi, congiunzioni, virgole e punti; tuttavia le differenze fra le diverse lingue sono facilmente superabili attraverso la traduzione. Piccole complicazioni, di un’unica lingua. Una sola lingua che può comunicare tutto, secondo necessità: un orario dei treni, un inno, un romanzo, una commemorazione, un testo scientifico, un’invenzione. Tutte le nostre conoscenze sono state rese possibili per la conoscenza di una lingua sola. Che fare in questa situazione che non riguarda solo Bari, ma tutto il mondo? Cosa può fare una singola persona, o un piccolissimo gruppo? Possiamo affrontare tutti i problemi globali?
Ebbene, io decido di prendere a calci gli architetti. Perché? Perché per poter influire in un qualche modo sulla società è necessario che tutti gli architetti, pur nella più totale libertà progettuale e di ricerca, mostrino alcune coordinate di atteggiamento comuni.
Una coordinata fondamentale di atteggiamento comune è proprio il linguaggio. Nelle cattedrali del consumo descritte poco fa da George Ritzer il linguaggio non viene unificato: sono progettate perché è il meccanismo assurdo della merce che lo richiede. Tutti i lavori intellettuali, anche in quelle situazioni che sembrano esserne libere, sono merce e ne condividono il ciclo di vita. Merce che deve deperire il più rapidamente possibile. E il vero problema sono gli uomini-merce, gli zombie: i produttori di merce. Un produttore di merce, visto che questa deve continuamente rinnovarsi, deve continuare a produrre nuova merce. Chi fabbrica, chi schiaccia i bottoni, taglia il materiale ecc. deve essere il più ignorante possibile. Deve conoscere e saper fare una cosa sola, che sia pressare uno stampo o approntare campagne pubblicitarie. Mi sento sempre obiettare che i nostri non sono più i Tempi Moderni di Charlie Chaplin, che adesso non esiste più quell’operaio…ma avete mai parlato veramente con un manager, con uno dei tanti freelance che lavora per il sistema di produzione industriale? Sono esattamente quell’operaio lì. L’unica differenza è che mangiano un po’ di più. Sono pagati meglio, visto che devono comunicare un’ignoranza intelligente, un’ignoranza utile.
Anch’io che faccio il progettista industriale, dovrei essere ignorante. E siccome è tutta la vita che lotto per non essere ignorante, pago lo scotto di fare quasi il morto di fame. E comunque ne sono contento.
Anche il pubblico deve essere ignorante: più ignorante è, più viene infinocchiato dalle proposte. Anche le teorie devono esserlo: basti pensare a teorie di economisti, industriali come quella della rottamazione. Ma chi l’ha detto che la città deve essere rottamata? La gente non sa cosa ancora succederà tra dieci o quindici anni, ma la città sarà letteralmente rottamata. Questo è il meccanismo della merce. Dico ai professori che in termini molto eleganti hanno raccontato molto bene questo fenomeno e dato delle notizie giuste, serie: questa è la premessa fondamentale, non occorre commentarla. Dalla descrizione dello stato delle cose, poi, le persone che pensano sapranno trarne le conclusioni.
Un’altra questione cruciale che riguarda il progetto è: dove decidiamo di andare? Ed è la domanda più difficile, perché un progetto che non si limita a mettere in discussione centomila cattivi imprenditori, ma ciò che pensano sette miliardi di persone! Senza dubbio, alcuni soggetti hanno influenzato il pensiero della maggioranza. In tutto il mondo si parla di tanto di democrazia, ma la democrazia non è mai vera. Quasi sempre questa forma di governo si traduce, di fatto, in atti impuri. Esistono tre partiti che hanno influito pesantemente sulla storia e continuano a farlo tuttora. Il primo è in piedi da duemila e cinquecento anni, il secondo da duemila anni e il terzo da circa un migliaio di anni. Sono i partiti di Abramo, o quelli fondati da Amenofi III il faraone transgender, che per primo declama: “Iddio è uno solo: Ra, il sole”. Partiti che in situazioni di confusione hanno conquistato il potere con la spada e con i rutti. E il re era colui che si proponeva come alfiere di Dio, promulgando anche una certa eticità e una certa possibilità di una vita collettiva, dando luogo alle prime regole. I dieci comandamenti. Onora il padre e la madre vuole dire, semplicemente, onora la storia: non si può capire dove andrà il mondo se non si conosce l’essenza della storia. Perché quello che quotidianamente possiamo leggere sui giornali di qualsiasi Paese è stato tentato, e ripetuto, migliaia di volte nell’arco degli anni. E solo se si è consapevoli di questo possiamo giudicare se le leggi proposte oggi siano ben fatte o meno. Partiti politici che, per affrontare il problema dell’infinito e di tutto ciò che non è immediatamente risolvibile e verificabile, inventano l’idea di Dio e l’idea della costruzione della società. Dove risiede la forza di questi partiti? Nelle regole, nella proposta di un’utopia. Utopia che, per definizione, non è realizzabile. Ma, infatti, si tratta di un’utopia furba, perché promette di realizzarsi dopo la morte.
Chissà se sarà davvero così: non possiamo saperlo e non lo sapremo mai. I tre partiti propongono alcune regole utili e possono essere ridotti a un unico grande partito, fortemente pessimista: quello che crede che l’uomo sia debole e che, abbandonato a se stesso, si comporti come un maiale, una bestia, una iena. A fronte della confessione e del perdono il partito ipotizza determinate regole. ‘Tu peccherai comunque. L’importante è che, però, ogni tanto, ti ricordi della via’ questo l’elemento di fondo di una siffatta visione pessimistica dell’Uomo. Tre partiti come tre religioni che pur litigando fra di loro, non a caso, sono fortemente d’accordo nel rifiutare la nuova religione, la nuova fede: la laicità. Quella visione che non accetta descrizioni infantili del perché della Vita, dell’Uomo e dell’Universo e che cerca di stare coi piedi per terra. Oggi siamo in una situazione dove non si fronteggiano più una destra e una sinistra. Siamo di fronte a una specie di cosa collosa dove la pensano tutti uguale. Venticinque anni fa, in Italia, è uscita una legge che consentiva ai bambini di decidere di seguire o meno l’ora di religione a scuola. Il risultato è stato che il bambino usciva di classe per fare ginnastica! Ma laicità non significa occuparsi di educazione fisica! Mia figlia, addirittura, passava l’ora alternativa a quella di religione in corridoio: una cosa folle. Se c’è un’ora di religione tenuta secondo il folclore cattolico, ci deve essere anche un’altra ora di religione tenuta secondo gli ideali laici, cioè secondo quei principi propedeutici all’etica comunicabili a un bambino. I problemi in cui ci muoviamo non sono più problemi di cose materiali, ma di idee e di sostanza. Parlate della città. Ma guardando la storia, si riscopre ogni volta l’allegoria della Torre di Babele: gli uomini vogliono raggiungere Dio che vive in alto. E incominciano a costruire una torre sempre più alta. Questa antichissima allegoria suggerisce che Dio rende difficile il dialogo. Ma non è così! è quello che stiamo facendo a rendere difficile la comunicazione tra gli uomini: nel secolo scorso è nato un altro dio: il dio della tecnologia. E la tecnologia qualche piccolo problema, forse, lo risolve. Ma non risolve i problemi dell’umanità.
La torre sta crollando. Non perché Dio obbliga a parlare in modi diversi; si sta sgretolando a causa di tutte le false speranza, le cattive educazioni, i miraggi che ne hanno motivato la costruzione.
Voglio chiarire meglio la mia posizione: ci sono due malattie che, spesso, le persone non chiamano col loro nome. ‘Quella malattia’, dicono. Si tratta del cancro e dell’Aids, malattie per cui non sono ancora stati trovati vaccini. Vi sono terapie, ma in molti casi non si guarisce del tutto. La ricerca di vaccini e terapie impegna laboratori di tutto il mondo – non dimentichiamoci dell’interesse economico legato a simili cure – e, effettivamente ci sono dei progressi. Di fatto, se uno è abbastanza ricco o non proprio poverissimo, può convivere con un cancro anche per vent’anni e morirne magari a novantacinque anni: poco importa, sarebbe morto comunque! Oppure chi contraeva l’Aids quindici anni fa moriva in pochi mesi, mentre adesso può vivere anche oltre dieci anni. Si tratta di terapie costose, ma comunque qualcosa è stato ottenuto grazie allo sforzo di studiosi che, a differenza di quanto sto facendo io, non fanno critiche radicali ma, si rimboccano le maniche, e ogni giorno cercano di lavorare per la collettività. Però nessuno urla sui giornali “Com’è bello il cancro! Com’è bello l’Aids!”. È invece quello che succede quando alla televisione si declama “Costruiremo il ponte sullo Stretto di Messina!” oppure “Faremo le esposizioni universali ma, per le esposizioni universali, dovremo costruire anche il quartiere!”. Com’è possibile che la gente non si ribelli a questo?
Sarebbe giusto che nelle scuole non si insegnasse agli studenti a progettare prima dei venticinque anni, che si facesse ricerca, conoscenza e rilievo. Solo dopo aver superato quel limite di sapere propedeutico, i giovani dovrebbero iniziare a confrontarsi con le problematiche del progetto.
Quello che è certo è che il pianeta ha il cancro.
Quando nel corso del mio contributo all’interno del film documentario Birdwatching che è stato proiettato questa mattina, affermo che la città deve essere chiusa da mura, definita all’interno di una certa dimensione e che, se per qualsiasi ragione quello spazio non è sufficiente, nel rispetto del territorio è necessario fondare un’altra città a sé stante. Nell’antichità, il territorio era un definito res nullius dove ci si approvvigionava di vegetali e di carne, un posto pericoloso, luogo di paludi e foreste. La città si circondava di mura.
Cos’è il cancro? Sono cellule che si sviluppano oltre natura. Il pianeta sta morendo.
La crisi che stiamo vivendo negli ultimi due anni, era prevedibile già trent’anni fa. Chi come me legge e osserva il mondo ne era a conoscenza e sa che aumenterà ancora. Il mercato globale l’ho sempre chiamato sfruttamento globale. Adesso si piangono e si pisciano tutti addosso, a partire dall’America. Ma se si sono suicidati, andando a trovare il lavoro che costa dieci, venti, trenta volte meno! Questo è il risultato dei meccanismi dell’industria. Perché se c’è il sistema mafioso siciliano o quello delle università, di fatto, il primo vero sistema mafioso da condannare è proprio dell’industria, che arriva a fare le leggi a sua misura. Meglio fermarsi qui, prima che qualcuno scriva che mangio i bambini…
Bisogna cominciare a cambiare rotta. L’unico progetto possibile è capire come decondizionare la gente da questo sogno infinito. Restituire un significato al termine ‘etica’ che invece continua a essere una parola vuota.
Intanto, provare a distinguere tra etica e morale. Due concetti che, in un qualche, modo dialogano. Ma, se non mi sbaglio, mentre la morale riguarda gli individui, l’etica riguarda la collettività. E molte affermazioni della morale sono contrarie a quelle dell’etica. Che poi queste posizioni morali siano motivate dalla paura della perdita della giovinezza piuttosto che dalla fame vera, è una questione riconducibile ad aspetti individuali. Qual è la differenza tra morale ed etica? Lo chiedo a Marc Augé e a tutti gli altri studiosi riuniti in questo convegno. Voi credete che lo sappiano? No, sono confusi. Conoscere la differenza tra gli ideali, cioè là dove ti spinge il cuore come sarebbe giusto fare, con tutte le diversità culturali delle persone, è politica. Si continuano a confondere le utopie, si usa la parola politica in termini impiastricciati. La politica oggi vuol dire solo come addurre gli altri a sé. è il rapporto delle tecniche sociali. Mentre una politica onesta dovrebbe avere degli obiettivi etici, degli obiettivi ideologici precisi. Quindi, dovremmo incominciare a precisare: è possibile, professor Marc Augé, immaginare alcune parole comuni, da divulgare alla gente comune? E quando dico alla gente, non mi riferisco agli industrialotti brianzoli o a coloro che hanno fatto i soldi inventando una scarpetta da califfo col ricciolo e la nappa, ma sto pensando agli aborigeni che ho visto fuggire dalle foreste della Amazzonia per andare a vivere nelle favelas desiderate come un sogno. Perché in discarica, almeno, si mangia; mentre nella foresta, qualche volta si mangia, qualche volta non si mangia. Un sogno dove si pensa a un futuro di comodità universale secondo il modello europeo.
Ma questo stesso modello europeo si è sviluppato negli ultimi cinquecento anni unicamente conquistando continenti, attuando genocidi, depredando il mondo. Senza doverne fare una questione etica o una questione morale, l’inseguimento di un simile modello è materialmente insostenibile: la mucca-mondo da cui mungiamo i materiali, mungiamo tutte le ricchezze, non ce la fa a produrre lusso per tutti. Invece, anche le persone più povere guardano a questo modello come a un sogno. Un desiderio da realizzare giocando alla lotteria e comprando il Gratta&Vinci. Che resta solo un sogno. È importante svegliarci da questo sogno, altrimenti quello che succederà nel futuro sarà un incubo.
Trascrizione dell’intervento di Enzo Mari al Secondo Convegno internazionale di studio “La città senza nome. Segni e segnali nel paesaggio contemporaneo” (Villa Romanazzi-Carducci, Bari | 22-23 ottobre 2009).