Grammatiche urbane

Urban grammars

La città è testo in molti modi. Intanto il tessuto urbano è letteralmente ‘scritto’ da insegne, sistemi segnaletici e messaggi pubblicitari. Ma leggere un luogo significa anche agire su una struttura di comunicazione non verbale, incrociare un palinsesto di codici visivi. Così, percorrere qualsiasi spazio comporta Sempre un’attività di decodificazione sinestetica in cui le connotazioni più macroscopiche sono il risultato dell’interagire, ad un livello più profondo e frammentato, di tutte le particelle che lo compongono.

La città si configura, allora, come un discorso composto da innumerevoli tratti minimi significanti tanto che una sua lettura richiede necessariamente una grammatica generale di riferimento, se non addirittura, diverse grammatiche per i diversi linguaggi urbani. In effetti ogni centro cittadino si presenta essenzialmente come un testo diastratico dove l’ultima sovrascrittura s’inserisce, più o meno consapevolmente, in un sistema precedente. In un’alternanza fra censura e affioramento, lo scenario cittadino veicola significati che, come in qualsiasi altro sistema semiotico, mutano nel tempo e nelle circostanze.

Senza dubbio, nella moltitudine di segni che sono in grado di definire l’identità di un ambiente metropolitano, insegne e segnaletica rappresentano una delle esternazioni linguistiche e iconografiche più eclatanti. Pittogrammi e logotipi costituiscono ormai l’imprescindibile texture che partecipa alla connotazione formale e compositiva di quasi ogni paesaggio abitato. Ma solo apparentemente, il rapporto tra città reale e relativo corredo di indicazioni grafiche può essere ricondotto al semplice rapporto tra testo costituito e suo indice. Infatti il sistema segnico visivo e verbale di insegne e segnaletica, autentica mappatura cognitiva che governa e gestisce l’agire del cittadino contemporaneo, costituisce a sua volta un ulteriore testo complesso dotato di possibilità semantiche tutt’altro che didascaliche. L’identità di un territorio urbano, percepibile internamente quanto esternamente ad esso, è allora costantemente ridefinita dall’incessante rapporto dialogico tra le diverse categorie di enunciato urbano, nella fenomenologia di una città come continua mis-en-scène.

Se questo antichissimo sistema di comunicazione è stato a lungo impiegato con funzioni principalmente informative e orientative, nella città ottocentesca, con la nascita dei primi consumi di massa, l’insegnistica diventa uno degli aspetti più sintomatici del rinnovato rapporto tra spazio pubblico e spazio privato, tra microcosmo commerciale e universo urbano. Empori, grandi magazzini e gallerie commerciali avvertono già l’esigenza di proiettare sul passante un’immagine forte e riconoscibile, mostrando un’inedita sensibilità nei confronti del posizionamento e dell’immagine esterna.

Nella città moderna la strada, da mero elemento infrastrutturale, si riqualifica pertanto come il supporto principale dei messaggi commerciali, lo scenario deputato ad ospitare iridescenti insegne al neon prima, e megaschermi ai cristalli liquidi, poi. Passeggiare per le vie cittadine diventa perciò la procedura per lo svolgimento di un’attività comunicazionale ininterrotta, dove committenza pubblica e privata si avvicendano senza soluzione di continuità in una giungla di segni e segnali. In molti casi il sovraffollamento di enunciati urbani rende lo spazio metropolitano un testo che rischia di divenire illeggibile e l’ipertrofia di segni sembra sostituire nella, società contemporanea, all’ancestrale horror vacui, un ben più patologico horror pieni.

Così, per poter sopravvivere come segno, la comunicazione commerciale
tende ad operare asintatticamente, al di là delle attese e con modalità sempre più invasive e trasgressive. Ogni città possedeva in passato modelli estetici e linguistici propri che, attraverso specifiche declinazioni architettoniche e urbanistiche, ne proiettavano un’identità unica e riconoscibile. Oggi, un’inaspettata sensazione di dejà-vu coglierà chi passeggia nelle zone commerciali dei più grandi centri urbani di tutto il mondo. E l’azzeramento delle coordinate geografiche nella crescente omologazione del paesaggio urbano trova una sua prima ragione proprio nel ripetersi degli stessi negozi e nell’identico defilarsi di insegne e richiami pubblicitari.

Come in un’unica sequenza cinematografica, le arterie commerciali di Tokyo e di New York, gli orizzonti della periferia romana e parigina, si susseguono senza soluzione di continuità in una casba di segni rigorosamente metaterritoriali. Per definizione indifferente alle singole identità urbane, il mercato internazionale esige strutture di vendita assolutamente riconoscibili e impermeabili ai diversi contesti. La crescente omologazione e l’atopia del panorama metropolitano diventa il prodotto, e insieme il presupposto, delle moderne operazioni di immagine coordinata.

La funzione assolta nel passato recente quasi esclusivamente dall’insegna interessa attualmente l’intera struttura degli edifici. Visto l’inquinamento visivo opacizzante che caratterizza l’odierno contesto urbano, per potersi affacciare sulle strade come entità discrete e significative, i soggetti commerciali devono necessariamente adottare una strategia di comunicazione che investa la totalità dell’involucro esterno, nella prospettiva di una dimensione puramente semantica e connotativa di veri e propri edifici-immagine. Del resto, la stretta correlazione tra evidenza architettonica dello spazio commerciale e istanze comunicazionali appariva già evidente fin dall’epoca delle avanguardie storiche. Basti pensare, in Italia, all’architettura ‘tipografica’ dei padiglioni pubblicitari progettati da Fortunato Depero, dove le lettere in gigantografia delle scritte costituivano gli elementi strutturali portanti; oppure, sempre nell’ambito della ricostruzione futurista dell’universo, al Padiglione Tricolore: ‘macchina plastica’ di propaganda politica, composta da un insieme di fasci littori.

Negli anni Venti, Los Angeles diventò invece protagonista di quella che è stata definita ‘Programmatic Architecture’, per l’intento di rendere consequenziale visione dell’edificio, generazione del bisogno e sosta per l’acquisto. Tra i grattacieli comparirono enormi coni gelato, teiere e hot-dog: negozi progettati come ingrandimento tridimensionale dei prodotti venduti all’interno. Si trattava, anche in questo caso, di una delle prime forme di contaminazione tra architettura pop, design e comunicazione pubblicitaria in seguito lungamente sperimentata da architetti concettuali e postmoderni. L’intento, oggi, è quello di realizzare dei macrosegni che traducano qualità e valori caratterizzanti l’identità di un marchio in un’esperienza percettiva totalizzante, attraverso vere e proprie operazioni di packaging su scala urbana.

Sempre più, anche nel Vecchio Continente, il luogo dove si concentra maggiormente l’attività di vendita è il grande shopping center sede privilegiata di aggregazione sociale per la commercializzazione non solo dì beni, ma anche di servizi e di strutture per il divertimento. Perfettamente omogenei alle nuove modalità di fruizione del tempo libero che caratterizzano i contemporanei stili di vita metropolitani, grandi magazzini e centri commerciali, uguali ovunque, rappresentano i casi emblematici della nuova idea di spazio collettivo. Quasi sempre localizzati in anonime periferie, questi luoghi sintetici ripropongono paradossalmente il tradizionale modello topografico radiale, citando tutta una serie di brani architettonici e urbanistici appartenenti a un’esistenza ormai ‘fictional’ della città fatta di piazze, strade e porticati.

 

Nel pianificare l’atmosfera di queste isole artificiali, i cosiddetti placemaker allestiscono progetti di design ambientale e di visual merchandising in cui insegne, segnaletica e scenografie tridimensionali narrano un messaggio coerente e accattivante. Ambientazioni a tema e spettacolarizzazione entrano a far parte del moderno retail mix, perché rispondendo anche all’esigenze ludiche e di intrattenimento che accompagnano la moderna liturgia dell’atto d’acquisto, incoraggiano la sosta e la ripetizione della visita. I clienti si aggirano così tra i negozi come turisti divertiti. E se i parchi di stampo disneyano invasi dal commercio di gadget assomigliano a variopinti centri commerciali, sembrano invece quest’ultimi gli autentici parchi del divertimento.

L’origine di questa ‘rivoluzione’ del signage e del graphic design risiede proprio nell’esperienza progettuale sviluppatasi nell’ambito delle strutture dell’intrattenimento di massa statunitense. Parchi tematici, multisale cinematografiche e impianti sportivi sono stati i primi committenti di allestimenti insegnistici e segnaletici fortemente narrativi ed evocativi. Ormai già largamente presente negli spazi aeroportuali, museali, ospedalieri e nelle sedi di rappresentanza delle più grandi multinazionali, questa nuova tendenza nell’architettura dei segni, sta per conquistare gran parte degli spazi di relazione collettiva.

L’entertainment è infatti la categoria in cui rientrano sempre più gli spazi commerciali più diversi e diversificati: dalla ristorazione alla fornitura di servizi, dall’abbigliamento ai centri fitness. Anche se non ancora toccati dalle forme più kitsch di “experiential design” (si pensi a Rodeo Drive, il surrogato di strada italiana in pieno centro di Beverly Hills, con tanto di salita artificiale lastricata e negozi degli stilisti più ambiti), gli scenari urbani di tutto il mondo diventano luogo di allucinazioni architettoniche, di ibridi tra grafica ambientale e design edile. Alle tante città presenti sul globo terrestre se ne sovrappone un’altra: una città senza nome, il cui volto è tappezzato dai marchi del mercato globale, e che indossa contemporaneamente innumerevoli identità frammentate.


[english]

The city is a text in many ways. For one thing the urban fabric is literally Written, by signs, sign systems and advertising messages. But interpreting a place also means acting on the non-verbal communication structure, intersecting a palimpsest of visual codes. Thus, crossing any space at all, always requires synaesthetic decoding, in which the most macroscopic connotations are the results of the interaction, at a deeper and fragmented level), of all the particles it consists of.

So the city takes on the shape of a discourse made up of countless minima) significant pieces and reading it requires necessarily a general grammar of referente, if not different grammars for different urban languages. In fact, all town centres are formed essentially like a multistrata text where the latest overwriting is inserted, more or less consciously, into a previous system. Therefore, in an alternation between covering and surfacing, the citizen scenario transports meanings which, as in any semiotic system, change over time and with the circumstances.

Undoubtedly, in the multitude of signs which define the identity of a metropolitan environment, signs and sign systems constitute one of the most glaring linguistic and iconographical expressions. By now, words and logos represent the unavoidable texture which participates in the formal and compositional connotation of almost every inhabited landscape.

Only apparently can the relation between the rea) city and relative accompaniment of graphical indications refer back to a simple relation between an established text and its index. The visual and verba) sign system, a veritable cognitive mapping which governs the acts of today’s public, represents, in turn, a further complex text endowed with semantic possibilities which are anything but didactic. The identity of an urban territory, to be perceived, internally and externally, is therefore constantly redefined by the endless dialogic relation

between the different categories of urban proposition, in the phenomenology of a city as a continuous mis en scène.

While this ancient system of communication has been for long put to use with mainly informative and orientative fictions, in the 19th century city, with the birth of mass consumption, it became one of the most symptomatic aspects of the renewed relation between public and private space, between commercial microcosm and urban universe. Emporiums, department stores and commercial galleries already display the need to project on the passer-by a strong, recognisable image, showing a new sensibility for positioning and the external image.

In the modern city a street passed from being a mere infrastructural element to the main support for commercial messages, the scenario dedicated to hosting iridescent neon signs, at first, and liquid crystal maxi-screens, after. Strolling through town streets has become the procedure for an uninterrupted communicational activity, where public and private patronage alternate continuously in a jungle of signs and signals. In many cases the overcrowding of urban proposition makes the metropolitan space a text which risks becoming illegible, and the hypertrophy of signs seems to have substituted in contemporary society the ancestral horror vacui with a much more pathological horror pleni. Thus, to be able to survive as a sign, commercial communication tends to operate asyntactically, going beyond expectations and with ever increasing invasive and transgressive modes of use.

In the past, every city possessed its own aesthetic and linguistic models which, by means of specific architectural and urbanistic forms, projected its unique and recognisable identity… Today, an unexpected sensation of dejà-vu seizes those who are walking through the commercial areas of the largest urban centres all over the world. The clearing of the geographical co-ordinates in the growing standardization of the urban landscape finds its first justification precisely in the repetition of the same shops and the identical distancing of signs and advertising reminders.

As if in a single cinematographic sequence, the commercial arteries of Tokyo and New York, the horizons of Roman and Parisian suburbs, go on forever in a casbah of strictly metaterritorial signs. By definition, indifferent to single urban identities, the international market requires selling structures to be absolutely recognisable and impervious to different contexts. The growing standardization and the atopia of the metropolitan landscape has become the product, and also the presupposition of modern operations of co-ordinated image.

At the moment, the function carried out almost entirely in the recent past by the sign involves the whole structure of buildings. In view of the opaciting visual pollution which characterises today’s urban context, to be able to look out over the streets as discreet and meaningful entities, commercial subjects necessarily have to adopt a communicational strategy which takes in the whole external covering, in the perspective of a purely semantic and connotative dimension of building-images.

In any case, the strict correlation between architectural evidence of the commercial space and communicational instances, was already evident from the historical avant-garde era onwards. In Italy we only have to recall the `tipografica’ architecture of the advertising pavilions planned by Fortunato Depero, where the blown-up letters of the writing were the main structural elements. Or, once more in the sphere of the Futurist reconstruction of the universe, at the Padiglione Tricolore: ‘plastic machine’ of political propaganda, made up of a group of Fascist lictors.

In the 1920s, Los Angeles became the protagonist of that which has been defined Programmatic Architecture’, to make a vision of the building consequential), the generation of need and a halting piace where purchases are made. Thus, among the skyscrapers there were enormous ice-cream cones, teapots and hot-dog stands: shops planned as three-dimensional) enlargements of the products sold inside. Also in this case we are dealing with one of the first forms of contamination between pop architecture, design and advertising communication, later on experimented in depth by conceptual and postmodern architects. The intention today is to achieve macrosigns which translate qualities and values characterising the identity of a label) in a totalising perceptual experience, by means of veritable packaging operations on an urban scale.

Increasingly, in Europe too, the place where selling is largely concentrated is the great shopping centre, privileged site of social) aggregation for the commercialization not only of goods but also services and entertainment structures. Perfectly homogeneous to the new ways of spending fire time which characterise contemporary styles of metropolitan life, department stores and commercial centres, the same wherever they are, are the emblematic cases of the new idea of collective space. Almost always to be found in anonymous suburbs, these synthetic places paradoxically offer anew the traditional radial topographic mode), quoting a whole series of architectural and urban pieces belonging to what is now a fictional existence of the city made up of squares, streets and porticoes.

In planning the atmosphere of these artificial islands, the so-called placemakers set up environmental design projects and visual merchandising in which signs, sign systems and traditional scenery narrate a consistent and fascinating message. Theme settings and spectacularisation are part and parcel of the modern retail mix, because they answer to playful needs too, encouraging one to stop and repeat the visit. The customers circulate between shops like amused tourists and, paradoxically, while Disney-like parks invaded by gadgets commerce resemble colourfull commercial centres, the latter seem to be authentic amusement parks.

The origin of this signage and graphic design `revolution’ resides precisely in the design experience which developed in the sphere of American mass¬entertainment structures. Theme parks, multiscreen cinemas and sports facilities were the first clients of signage set-ups with a strong narrative and evocative bias. By now to be found in aeroports, museums, hospitals and the largest multinational headquarters, this new tendency in the architecture of signs is about to conquer most collective relation spaces.

Entertainment is indeed the category in which we find the most diverse and diversified forms of commercial spaces, ranging from refreshment to services supply, from clothing to fitness centres. Although not yet touched by the most kitsch forms of “experiential design” (we recall Rodeo Drive, the Italian street surrogate in the very centre of Beverly Hills, with so much paved artificial hill and shops of the most sought-after stylists), the urban scenarios of the whole world have become places of architectural hallucination, hybrids between environmental graphics and building design. Over the many cities present on the terrestrial globe another is superimposed, a city without a name, whose face is carpeted with the logos of the global market, and which wears at the same time countless fragmented identities.


(Tratto da/ From: Nota Bene. I linguaggi della comunicazione. 24 ore design, n. 1, Anno II, Logo Fausto Lupetti, Milano 2000.)