La pornografia degli angeli
Pornography of the angels
“Se fossi un pellerossa, e sempre pronto, e sempre vibrante sopra il cavallo in corsa, cavalcando, sulla terra che vibra, fino a non servirmi degli speroni, poiché non c’erano speroni, fino a buttar via le redini, poiché non c’erano redini, e vedessi appena la terra davanti a me come un prato mietuto di fresco, già senza collo di cavallo e testa di cavallo.”
Nulla di psicologico nell’analisi con cui Kafka folgora il movimento del desiderio. Non è una logica, è la forma stessa del desiderio che si produce solo mentre si annulla. Stupisce che tutta la fisica del secolo (micro o macro, nucleare o astrale), dall’apparire/scomparire dei fantasmi dell’elettrone e dell’antimateria si dedichi al tentativo di far apparire un istante particelle ipotizzate o virtuali, subito scomparse? E che il vorticare di esse, il loro letterale essere ferme e in moto e qui e altrove, il loro baluginare e pullulare costituisca e permetta la solidità della materia e la forma degli oggetti…?…
Naturale che nel tramonto dell’oggi (si, proprio ‘naturale’, col senso di innaturale che ci brucia la bocca e la mente nell’azzardare la parola) l’oggetto che più di tutti appare e scompare, il set pi ù evidente del design, sia il corpo stesso, l’oggetto che ci portiamo addosso e che ci porta, che siamo e che ci è, che vorremmo essere di più o non essere.
Vertiginosa, la convergenza verso il biologico (bioingegneria, mutazione, durata della vita individuale…), verso il luogo fisico supposto del soggetto, come condensazione in un umanismo paradossale di un doppio rimbalzo dalla profondità astrale e da quella del subliminale subelettronico subfotonico neuronale… Vertigine e convergenza del secolo, avvertita da Kafka (e, tra gli altri, da Valery, Benjamin, Proust, Joyce, Nietzsche, per restar lì, lontano dagli ‘oggetti’, o appena sotto il loro apparire, dove si agitano la chimica della scrittura e la fisica della voce…) proprio nella precisione paradossale di un haiku che si disfa, nell’immaginedesiderio che nell’attimo stesso in cui si manifesta si sgretola e decade (e anzi quella rapidissima assolvenza/dissolvenza da nero e verso nero (o bianco) è l’istante stesso, il riconoscimento goduto e temuto e svanito che lo spazio esista…’prima (e dopo) del tempo’…).
Naturalmente (di nuovo…) già Baudelaire e Rimbaud (con Monet e Cezanne) hanno trovato o sperimentato la allucinazione ossessiva che costituisce le forme e gli oggetti e la visione stessa del soggetto (a sua volta ondivago, corpuscolare, intermittente); e si può rimontare da Jean Paul e Holderlin, Goethe, Novalis attraverso la lotta tra (il battito di?) coscienza e incoscienza nell’idealismo tedesco e in Kant, e il geniale disperdersi dei lumi, giù e su fino al dubbio decisivo e costitutivo e iperfilmico (oh, la seconda ‘meditazione metafisica’) di Descartes. Forse trovando in Edgar Allan Poe, nella sua chimica dell’immagina- rio, nel suo ‘landscape gardener’, in ‘eureka’, nel suo sostituire la figura del maelstrom a quella del maestro, l’allargamento decisivo nella scala degli oggetti: il mondo stesso – non solo il pianeta – è un ‘oggetto’ che si forma si beve si sforma trangugia dissolve nell’allucinazione che è il soggetto.
Ma è quasi inutile o troppo rudimentale rimontare oltre il secolo. Da poco più di un secolo una macchina (peraltro essa stessa di chimica e fisica rudimentalissime e semplici, e fino a oggi o l’altroggi rimasta sostanzialmente immutata) permette tecnicamente questa ‘rimonta del tempo’, muta lo spazio in tempo e ne consente la riproduzione registrazione accumulazione (perfino, oltre la ritualità da caverna e sala oscura, la addomesticazione del mondo per via televisiva, il rendersi a domicilio del mondo in rete…). È lampante, fino a negarci la propria stessa evidenza, quanto il processo filmico (oltre la sua spoglia di genere drammatico-narrativo) abbia reso (nonostante la relativa saltuarietà randomizzata del suo intervenire e prodursi) l’idea stesso di tempo e di storia un oggetto, un insieme imbobinato e sbobinabile, continuo anniversante ritorno (quasi senza andata) di cui si gode e soffre lo spettacolo in una continua terribile rutilante soffice carezzevole celebrazione.
Lanterna magica. Cortocircuito qui, appena la si strofina, tra desiderio (di nuovo; ovviamente), cinema (l’oggetto ‘lanterna magica’ è tra i prodromi più costantemente evocati e mostrati dalle archeologie del cinema-…come dire: dalle archeologie dell’archeologia di tutte le archeologie…), e il cinema senza apparato e senza film, già tutto mentale e reticolare diffuso frattale (senza ‘design’ evidente), inventato infatti da Freud contemporaneamente ai Lumière; da Freud con filmicissima passione archeologica: cinema e psicoanalisi producono e rievocano (con diversa automaticità e difficoltà e approssimazione!…) discorsi figure soggetti tutti come sepolti/dissepolti a strati; in Freud il terreno è il mentale, il testo (il sogno come ‘la vita quotidiana’) è immagine incerta che si fa e si disfa di continuo.
Mentre la Kodak annuncia per poco dopo il duemilauno il cessare della produzione di pellicola (indicando il trionfo generalizzato –rispetto al concetto di pelle e a quello di trascinamento/scorrimento- di una forma di tessuto elettronico digitale sintetico, circolare, a spirale, infine random, già dentro l’energia del motore eventuale che trascina(va)/genera le immagini) vien da pensare a quanto la ‘sovrapproduzione insufficiente’ (il cinema è solo ossimori) di innumerevoli immagini ‘formate’ (una moltitudine sterminata, ché infatti poi ne avviene lo sterminio nella simulazione del movimento) abbia fatto dimenticare la fantomaticità del cinema stesso (la sua ‘invisibilità’; e l’invisibilità tecnica a causa dell’evocazione degli infiniti punti di vista possibili e della massa di ‘registrazioni’) e l’incertezza freudiana del suo ‘registrare’, il suo assottigliare il mondo e il suo proprio assottigliarsi e tendere a zero, a favore del lussureggiare e manifestarsi di forme (a volte per la prima volta) visibili e riconoscibili.
Evoco l’attuale mutazione e tramonto della sfera cinetelevisiva perché per la prima volta l’apparato e gli apparecchi e gli oggetti stessi mediante i quali si produce si distribuisce si vede il cinema (e tv) dimagriscono rimpiccioliscono deperiscono svaniscono si fantomatizzano a loro volta (dopo essersi man mano avvicinati al corpo come vere e proprie protesi, fino a quella cinepresa da indossare che è la steadycam), tanto più tendendo a sparire quanto più si intensifica la loro potenza e capacità di evocare e far apparire immagini sempre più vivide fisiche tridimensionali corporee. (Naturalmente –per la terza volta…- l’orizzonte aleph o oltrealeph non esclude l’ingombro attuale dei megateatri, né la fascinosa estensione architettonica degli Imax, stati tecnologicamente intermedi ma anche templi visibili e necessari per imprigionare glorificare omaggiare ancora –e infine temperare, esorcizzandone il dilagare invisibile peraltro già largamente avvenuto…parlo da una zattera in zona alluvionale…o già nel gorgo…?… – la visibilità del cinema, la sua monumentalità ). Grazie al cinema, alla sua automaticità prensile imprendibile, si è moltiplicata e diramata infinitamente la possibilità di reperire documentare catalogare forme e oggetti, con tutto quel che ne deriva di piaceri arcaicodomesticomusealborghese e perfino di godimento. (Vedere il cinema scenografico di Ridley Scott, epitome inane della postmodernità, che in Blade Runner perde gli abissi dickiani e trova appunto e percorre con meraviglia banale il crinale della copia originale…).
Ci sfuggì e sfugge costantemente (e ci sfuggirà di più se non accetteremo di riconoscere in ‘noi’, nel genere ‘noi’, la transizione che siamo verso un evaporare del visibile) il mai visto che permane il cinema, il suo essere calco negativo diffuso dell’idea stessa di soggetto e di tutte le manifestazioni del visibile. Tutto il cinema come una ‘pornografia degli angeli’ (Benjamin), un’evidenza ossessiva che è del/nel vedersi e non del ‘visto’. Anale troppo anale sarebbe curarsi delle forme che vi vediamo pullulare e che costantemente in ogni caso il noi/macchina da presa (la mdp che è in noi, il noi che è nella mdp) registra. Infine (ma non è che un inizio) la medicina propone in questo modesto e preciso duemila il viaggio allucinante previsto dal cinema di genere (ma già compiuto cent’anni prima di Strange Days – tutti i giorni del cinema furono strani… – come viaggio ottico-meccanico nel mentale) il cinema intestinale non più solo come sonda, occhio terminale di un apparato tentacolare mabusiano. Sono vere e proprie compresse/navicella da inghiottire per bocca (e da recuperare come escremento) quelle che si sono in diversi laboratori già sperimentate: occhi viaggianti, che trascorrono attraverso i flussi della macchina digestiva o del flusso sanguigno del corpo. L’ombra mentale concentrata nella sfericità dell’occhio si fa occhiopastiglia, occhio puntiforme, si scioglie nel corpo (prima ancora di impiantarsi come protesi scheda piastrina codice…). Come il denaro, e già in carta di credito, l’occhio si annulla, diventa puramente astratto e quindi adatto a circolare il/nel corpo, a curarlo/salvarlo forse mentre lo annulla. La forma si (an)nega nel corpo che fu la misura delle forme. Pastiglei, supposte, forme subito sciolte dal/nel corpo, forme dolci erotiche temibili caduche. Ah…!… trasmettono… l’occhio si fa virus… definitivo linguaggio in senso burroughsiano… medici analisti scienziati cineasti spettatori guardano guardiamo… – Questo, se ce n’è uno, è l’oggetto: il codice che siamo, il segno grado zero di 2001, il tempo che vogliamo rimontare oltre la velocità della luce, facendo apparire/scomparire quel che fino a oggi fa apparire/scomparire (e qui: Lynch, Cronenberg, Kitano, ma anche Lang, Vigo, Rossellini, Walsh e Vertov e Ophuls e …). Non (ci) si vede. Non si vede a chi e per chi, dove e da dove, da quando e fino a quando ‘trasmettiamo’. Il massimo, che ci sta capitando, è riconoscersi come interruttori, o come spazio nero buio informe tra un fotogramma e l’altro, o come frammento desiderante di immagine in cerca di altre tessere. Appare il nostro sparire. Abitiamo il vento che ci disegna.
[english]
“If I were a red indian, alert, vibrant on the galloping horse, riding, on the vibrating ground, without stirrups – because there were no stirrups – casting off the reins – because there were no reins – and I could just see ahead of me like a freshly harvested field, no horse’s neck, no horse’s head.”
Nothing psychological in Kafka’s analysis which strikes the movement of desire. It is not a logic, it is the form itself of desire which is produced only as it is annulled. Does it amaze us that all the physics of this century (micro or macro, nuclear or astral) from the appearance/disappearance of the ghosts of the electron and anti-matter onwards, has been dedicated to the attempt at making an instant hypothetical or virtual particle appear only to disappear immediately? Is it just that their whirling, their literal standing still and moving, here and eleswhere, their flickering and swarming, constitutes and allows the solidity of matter and the form of the objects…? It is natural that in today’s sunrise (yes, precisely ‘natural’, with the sense of unnatural which burns our mouth and mind in risking the word) the object which , more than anything else appears and disappears, the most obvious design set, is the body itself, the object that we carry around and which carries us, which we are and which is us, which we would like to be more, or not be. Vertiginous, the convergence towards the biological (bio-engineering, mutation, duration of individual life…), towards the supposed physical place of the subject, as condensation of a paradoxical humanism of a double rebound from astral profundity or subliminal, subelectronic neuronal… Vertigo and convergence of the century, sensed by Kafka (and among others by Valery, Benjamin, Proust, Joyce, Nietzsche, to remain there, far from “objects”, or just under their appearing, where the chemistry of writing and the physics of the voice are stirring…) in precisely the paradoxical precision of a haiku undoing itself, in the imagedesire which in the instant in which it manifests itself crumbles and decays (indeed, that extremeely rapid release/fading from black and towards black (or white) is the instant itself, the recognition enjoyed and feared which space exists… ‘before (and after) time…).
Naturally (once more…) Baudelaire and Rimbaud (with Monet and Cezanne) had already found and experimented with the obsessive hallucination which constitutes form and objects and the vision itself of the subject (in turn, wavering, corpuscular, intermittent); and we might recall Jean Paul and holderlin Goethe novalis through the struggle between (the beat of?) consciousness and the unconscious in German idealism and in Kant, and the ingenious scattering of the enlightenment thinkers, down and up to the doubt – decisive and constitutive and hyperfilmic (oh, the second “metaphysical meditation” of Descartes. Perhaps finding in Edgar Allan Poe, in his chemistry of the imagination, in his “landscape gardner” , in “eureka”, in his substituting the figure of the maelstrom with that of the maestro, the decisive broadening in the scale of the objects: the world itself – not only the planet – is an “object” which at the form, drinks deforms swallows dissolves in that hallucination which is the subject.
But it is almost useless or too rudimental to go back more than a century. For little more than a century a machine (what’s more, it itself made of extremely rudimental and simple chemistry and physics, and at this moment or at another moment has remained substantially unchanged) technically allows us to “go back in time”, alter space and time and allows its reproduction recording accumulation (beyond, even, the rituality of cave and dark room, the domestication of the world by television, the home delivery of the world on the air…). It is self-evident, so much so as to deny to us evidence of itself, how much the filmic process (beyond its garment of dramatic-narrative) has rendered (despite the relative randomised irregularity of its intervention and production) the idea itself of time and history of an object, a wound and windable ensemble, continuous anniversant return (almost without departure) which the performance enjoys and suffers in a continuous terrible glowing soft caressing celebration.
Magic lantern. Short circuit here, just rubbing it, between desire (once more; obviously), cinema (the object “magic lantern” is among the precursors most constantly evoked and shown by the archaeology of cinema -…how shall we say: by the archaeologies of the archaeology of all archaeologies…), and cinema without equipment and without film, all mental and reticular diffused fractal (without a clear “design”), invented, in fact, by Freud at the same time as the Lumière brothers; by Freud with an extremely filmic archaeological passion: cinema and psychoanalysis produce and re-evoke (with different automaticity and difficulty and approximation…) discourse figures subjects all as if buried/exhumed in strata; in Freud the terrain is the mental, the text (the dream like “the daily life”) is an uncertain image which is made and unmade in continuation.
While Kodak is announcing for just after the year 2001 the end of production of film (indicating the generalised triumph – with respect to the concept of skin and that of dragging/flowing – of a form of synthetic digital electronic tissue, circular, spiral, in the end random, already inside the energy of the eventual motor which drags(ged)/generates the image) we are led to think of how the “insufficient overproduction” (cinema is only oxymorons) of countless “formed” images ( a vast multitude, which in fact sparks off their extermination in the simulation of movement) led us to forget the spectral nature of cinema itself (its “invisibility”; and the technical invisibility because of the evocation of possibly infinite points of view and the mass of “recordings”) and the freudian uncertainty of its “recording”, its diminishing of the world and its own diminishing and tending towards zero, in favour of the luxuriant growth and manifesting of forms (sometimes for the first time), visible and recognisable.
I am evoking the present day alteration and sunset of the cinetelevisual sphere because for the first time the equipment and the devices and the objects themselves by means of which we produce distribute see the cinema (and TV) slim shrink perish disappear phantomise themselves in turn (after having little by little approached the body as a veritable prosthesis, up to that camera which is worn – the steadycam) the more they tend to disappear the more their strength increases and their capacity to evoke and make images appear ever more vivid physical three-dimensional corporeal. (Naturally – the third time… – the aleph horizon does not exclude the present-day encumbrance of megatheatres, or the fascinating architectural extension of the imaxes, technologically intermediate states but also visible and temples necessary for imprisoning glorifying still rendering homage to – and yet more, sharpening exorcising the invisible spreading (which in any case had already taken place…I’m speaking of a raft in a flood zone …or already in the whirlpool…? – the visibility of cinema, its monumentality). Thanks to cinema, its prehensile automaticity, what has multiplied and branched out infinitely has been the possibility to trace document catalogue forms and objects, with all that derives from it in terms of archaicdomesticmuseumbourgeois pleasures and even of enjoyment. (Watching the scenic cinema of Ridley Scott, inane epitome of post-modernity, which in Blade Runner loses the dickian abysses and finds, in fact, and follows – with trite marvel – the ridge of the original copy…). It escaped us and escapes us constantly (and will escape us even more if we do not accept recognition in “us”, in the genre “us”, the transition we are towards an evaporation of the visible) the never seen which remains the cinema, its being a widespread negative mould of the idea itself of the subject and of all the manifestations of the visible. All cinema as a “pornography of the angels” (Benjamin), an obsessive proof which is of/in the seeing and not the “seen”. Anal, too anal, would be curing oneself of the forms we see swarming and which constantly in any case, the us/camera (the movie camera that is in us, the us that is in the movie camera) records. Finally (but it is only a beginning) medicine proposes in this modest and precise 2000 the hallucinating journey foreseen by genre cinema (but already 100 years old before “Strange Days” – all the days of the cinema were “strange” … – as an opticalnmechanical journey through the mental) intestinal cinema no longer alone as a probe, terminal eye of a mabusian tentacular device. They are veritable tablet/shuttles to swallow (and recover as escrement) those which in a number of laboratories have already been experimented: travelling eyes, which run through the flows of the digestive machine or the circulation of the blood in the body. The mental shadow concentrated in the sphericity of the eye becomes eyetablet, punctiform eye, it is dissolved in the body (even before it is implanted as prosthesis plaque, code…). Like money and credit cards, the eye is annulled, it becomes purely abstract and thus able to circulate the/in the body, to cure it while annulling it. Form is denied/drowned in the body which was the measure of forms. Tablets. Suppositories, forms immediately dissolved by/in the body, sweet erotic fearful fleeting forms. Ah…!…they transmit…the eye becomes a virus…definitive language in burrough’s sense…doctors analysts scientists cinematographers spectators watch we watch …- This, if there is one, is the object: the code that we are, the zero grade sign of 2001, time that we wish to remount beyond the speed of light, making appear/disappear that which up to now makes appear/disappear (and here: Lynch, Cronenberg, Kitano, but also Lang, Vigo, Rossellini, Walsh, and Vertov and Ophuls and…). We don’t see. We don’t see to whom for whom, where and from where, from when and up to when we ‘transmit’.
The maximum, which is happening to us, is to recognise ourselves as switches or as space black dark. Formless between one frame and another or desiring fragment of image in search of other tesserae. Our disappearing appears. We inhabit the wind which designs us.
(Tratto da/from: NB. I linguaggi della comunicazione, Shake the wor(l)ds, N.1, Anno II, Logo Fausto Lupetti Editore, Milano 2010.)