Poetica del divenire
Poetics of becoming

“Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.”

Eugenio Montale 

Gillo Dorfles è, da sempre, “critico e pittore assieme”(1). La riflessione di Paolo Fossati che evidenzia, appunto, la convivenza, in Dorfles, di una doppia vocazione, rimanda non solo a quel filone del Movimento per l’Arte Concreta che lo vide, assieme a Gianni Monnet, Bruno Munari e Atanasio Soldati tra i più rilevanti artefici, protagonisti e interpreti di un rinnovamento dell’arte in Italia, ma anche ad un periodo (e ad un programma) che, ripercorrendo e riallacciando i ponti con alcuni stilemi delle avanguardie storiche, richiama l’attenzione sui vari linguaggi dell’arte, sui materiali e le tecniche, su un panorama che intreccia il mondo dell’architettura, del disegno industriale, dell’arredo e della moda, della musica, del manifesto pubblicitario, della scultura e della pittura, per dar vita ad una poliglotta estetica, ad una sintesi delle arti (2) che non è – e non vuol essere – semplicistica riapertura o rievocazione nostalgica del Gesamtkunstwerk, ma brano riflessivo sulle varie declinazioni della creatività umana: e sull’apertura (apertura concreta, più esattamente) di questa creatività ai bisogni quotidiani. 

Il Discorso tecnico delle arti – apparso, nel 1952, in una collana (Saggi di varia umanità) diretta da Francesco Flora per i tipi Nistri-Lischi di Pisa – è cifra indicativa di una vivace e inconfondibile esperienza artistica che si metamorfosa in proposizione teorica per affrontare, appunto, un discorso sui rapporti e le interferenze che intercorrono fra i vari codici artistici. Un discorso che, se da una parte si inserisce nel dibattito estetico anticrociano dell’immediato dopoguerra avviato da Luciano Anceschi in tempi non sospetti con il saggio Autonomia ed eteronomia dell’arte (1936), dall’altra sottolinea l’importanza di una ritmicità (tonale e timbrica) che stabilisce “il reale valore dell’intervallo luminoso e dell’intervallo sonoro” (3) all’interno dei vari orizzonti idiomatici. Fino a rilevare e rivelare “la necessità di uno spazio vuoto, la necessità di creare un particolare ritmo spaziale” che domina il mondo della pittura come quello della musica e della poesia (4), o delle arti in generale. 

A questa componente estetologica che nasce, appunto, da una pratica artistica e da una diretta conoscenza tecnica delle arti, Dorfles ha dedicato, in varie occasioni, una serie di riflessioni cruciali per sottolineare l’esigenza di una pausa (Il ritorno della pausa è, nel 1982, il titolo di un numero monografico della rivista Taide)(5), di uno spazio di rispetto – per l’arte, per la critica e per il pubblico – necessario a riscattare un intervallo perduto “nei termini di una sosta in quel continuo flusso percettivo che ci vede coinvolti” (6), a ricercare un adeguato spazio di distacco dalle innumerevoli sollecitazioni semiotiche di cui oggi è pervaso e invaso il mondo. La Necessità d’un ricupero del fattore intervallare (7) si presenta, difatti, a più riprese, e con urgenza, per evidenziare non solo un costante divenire delle arti e della critica (8), una metamorfosi della vita quotidiana condizionata dal nuovo che avanza, ma anche per “ristabilire e statuire ex novo un ruolo diverso alla nostra capacità percettivo-gustativa” (9). È quanto afferma, ad esempio, in una relazione tenuta in occasione del Convegno di Montecatini conosciuto, nell’ambito familiare della critica e della teoria, con il sintagma Critica O (10). 

Le “misteriose e intuitive leggi del ritmo”(11) messe in campo con il Discorso tecnico, territorio cruciale per la creazione, per la pratica critica e per la fruizione dell’opera, ritornano, così, nel maggio del 1978, per segnalare una distanza indispensabile nei confronti di quella “iperdisponibilità all’ascolto, al visionamento, alla ricezione in generale di […] messaggi totalmente o parzialmente – o equivocabilmente – estetici” che sollecitano e corrompono, a volte, l’autenticità di un giudizio assiologico. Dopo appena due anni, con L’intervallo perduto (1980), la considerazione si infittisce per indicare un itinerario, un fattore primario, una dominante che attraversa non solo i territori “della creazione artistica, ma addirittura di numerose condizioni di esistenza della nostra epoca” (12). “Si tratta”, sottolinea Dorfles, “di recuperare la capacità – o meglio la coscienza d’una capacità diastemica; si tratta di constatare come e perché in alcune manifestazioni epocali sia presente o assente questa costante-incostante così fondamentale per ogni creazione e per ogni equilibrio vitale. E si tratta anche di saper distinguere quando alcuni fenomeni artistici sorgono o sono sorti per l’assenza o la rinnovata presenza di questo fattore intervallare”(13). Di un intervallo, di un sintagma del tempo (14), di un vuoto e di una pausa che sono “nodo cruciale per l’arte e per la critica” (Trimarco)(15) e, nel contempo, necessità fisiologica da riconquistare all’interno di una planetaria ipertrofia segnica, di un “colossale e ubiquitario “inquinamento immaginifico” cui la nostra civiltà abbia mai assistito”(16). 

È sulla scia dell’intervallo perduto che, per analizzare l’elettrocardiogramma del divenire dell’arte, della critica e della vita, Dorfles propone, seguendo la traiettoria luminosa del nyat (così è espresso il vuoto nel Sutra del Mahayana), una ritemporalizzazione più umana: efficace non solo a risvegliare le menti in preda ad una ormai diffusa ipnomedialità che segue “il meccanismo dell’ipnopedia”(17), ma anche a difendere le ultime labili linee dell’autenticità. 

 

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Per prendere una rivincita sui simulacri e sui luoghi comuni che creano un pluralismo omologante – o una omogeneità della diversità (Michaud) – e soffocano i focolai della diversificazione creativa, Dorfles pone allora sulla bilancia impazzita della società contemporanea e dell’imbroglio culturale (Clifford), un andamento atto a decelerare il sisma degli eventi per ritornare alla purezza distensiva della fantasia fisiologica, del caro immaginar. 

Lungo questo orizzonte di pensiero il paesaggio prospettato da Dorfles guarda, infatti, con cautela e fermezza, verso un necessario recupero della manualità e della tecnica per generare una – altrettanto necessaria – revisione estetica. E non solo nel campo della pittura (e dell’arte in generale) ma anche in quello di alcuni territori legati al mito e al rito, al mistero e al magico, al fantastico, al naturale, all’umano (18). Per Dorfles è importante, adesso, ad apertura del nuovo millennio, generare un anticorpo in grado di immunizzare l’uomo – e con lui l’artista e il critico – da una overdose di artificiosità. Ma anche risvegliare e accrescere la capacità immaginifica dell’uomo a partire proprio da una pratica manuale e artigianale che riattiva “tutti i rapporti con il nostro corpo” e riorganizza “la sua partecipazione” alle “attività creative” della vita quotidiana (19). Un ritorno al corpo che non vuol dire, tuttavia, aborrire i nuovi mezzi di comunicazione e i nuovi strumenti elettronici. Né tantomeno abbandonare le importanti conquiste tecnoscientifiche. Bensì riconquistare un fondamentale rapporto con la propria corporalità e con la propria essenza fisiologica, ritornare ad un modello emotivo capace di decelerare il passo sulle piste scivolose del presentismo e apprezzare nuovamente gli strumenti della vita, di un nucleo fragile in cui mentale e manuale, teorico e pratico si intrecciano indissolubilmente. 

Ricuperare una pausa, un ritmo, un intervallo, vuol dire, allora, per Dorfles (per l’artista e per il teorico), allontanarsi da un pernicioso horror pleni, da una (in) civiltà del rumore (ovvero da una “non civiltà dell’informazione”)(20), da fattoidi disturbanti e viziosi, da una infezione semiotica deleteria al pensiero critico e alla creatività. Vuol dire, infine, porre le basi educative (pedagogiche e soprattutto andragogiche) efficaci a generare una corretta – e quantomai urgente – riflessione sull’esistenza (21). 


(1) P. Fossati, Il movimento arte concreta 1948-1958. Materiali e documenti, Martano Editore, Torino 1980, p. 27. 
 (2) Sintesi tra le arti è un problema vitale”, scrive Franco Passoni nel dodicesimo Bollettino, “che via via assume nel mondo contemporaneo un’importanza sempre più urgente. “Sintesi non è una formula ‘ex novo’ d’un particolare modo d’intendere o voler fare arte. Sintesi è il diretto concorso di tecnici e artisti, sul piano della stretta collaborazione, per il raggiungimento finale d’un concreto il quale aderisca alla funzione di armonia in colleganza fra il mondo della forma, lo spazio e l’applicazione. Noi affermiamo che il prodotto è l’unico e inequivocabile soggetto sul quale tutti noi dobbiamo concentrare i nostri sforzi”. F. Passoni, Le arti e la tecnica, in “Arte concreta, bollettino n. 12” del Movimento Arte Concreta, 15 febbraio 1953, ora anche in S. Spriano, a cura di, I 15 bollettini del M.A.C., ristampa anastatica, Galleria Spriano Edizioni, Omegna 1981, p. 65. 
(3) G. Dorfles, Discorso tecnico delle arti (1952), Christian Marinotti Edizioni, Milano 2003, p. 87.
 (4) G. Dorfles, Discorso tecnico, cit., p. 59.
(5) G. Dorfles, a cura di, Il ritorno della pausa, n. monografico della rivista “Taide materiali minimi”, a. 3, n. 4, sett.-dic. 1982, La Buona Stampa, Ercolano 1982. Un numero che Dorfles definisce chiamando a sé, tra l’altro, una schiera di artisti (Bertholin, Renato Boerio, Gerardo Dicrola, Jeorge Eielson, Nino Longobardi, Enrico Luzzi, Mimmo Paladino, Ico Parisi, Angelomichele Risi, Nicola Salvatore e Irene Schwartz) per delineare non solo un terreno felice in cui ritorna il disegno teorico d’impostazione intervallare ma anche – seguendo le linee programmatiche della galleria e della rivista – una via dedicata al “materiale minimo – ossia allo schizzo, l’abbozzo, il non-finito, l’embrionale, il magmatico” che, per Dorfles, “può diventare la vera matrice di qualcosa di più”: non solo pream- bolo all’opera autentica, al prodotto finito, ma anche, e soprattutto, componimento vivace, luogo di magma energetico e di intervallo in cui rintracciare gli elementi più autentici dell’opera e del procedimento artistico. “È, allora, in questo intervallo tra il momento ancora miocinetico del gesto e quello ponderato della costruzione che si cela – non sempre ma spesso”, suggerisce Dorfles, “l’unica traccia di quel tempuscolo o corpuscolo di nuovo, di genuino, di automatico, di cui noi stessi non ci eravamo accorti, ma che costituisce l’unica autentica base d’ogni nostra successiva creazione”. La pausa, l’intervallo e il materiale minimo (attraversato, quest’ultimo, da un punto di vista più strettamente creativo) fanno anche da stradario ad una ricomparsa personale di Dorfles – del critico e dell’estetologo ormai indiscutibili su un piano strettamente accademico – alla pittura.
(6) M. Musaio, Pedagogia del bello. Suggestioni e percorsi educativi, Franco Angeli, Milano 2007, p. 180. 
(7) G. Dorfles, È ancora possibile un giudizio assiologico?, in E. Mucci, P. L. Tazzi, Teoria e pratiche della critica d’arte. Atti del convegno di Montecatini, maggio 1978, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 15-17.
(8) A cui Dorfles ha dedicato due volumi esemplari, Il divenire delle arti (Einaudi, Torino 1959) e Il divenire della critica (Einaudi, Torino 1976).
(9) G. Dorfles, È ancora possibile un giudizio assiologico?, cit., p. 14.
(10) “Il sintagma Critica O“, si legge nella Premessa alla pubblicazione degli Atti, “era suscettibile di letture diverse: una era quella offerta dal livello più formalizzato equivalente al significato di numero zero di una pubblicazione periodica; se il grafema O manteneva il significato di numero, si instaurava anche un secondo livello di lettura, il grado zero della critica; se invece il grafema O era riferito alla vocale o, come congiunzione disgiuntiva (e tale lettura era possibile solo in italiano), il sintagma assumeva il significato di critica o qualche altra cosa che la critica non era, o non lo era più”. 
(11) G. Dorfles, Discorso tecnico, cit., p. 54.
(12) G. Dorfles, L’intervallo perduto, Einaudi, Torino 1980, p. 8.
(13) G. Dorfles, L’intervallo perduto, cit., p. 9.
(14)  Per tale questione si vedano almeno Nicomaco di Gerasa, Manuale di Armonica, V, 244, in L. Zanoncelli, La manualistica musicale greca, Guerini e Associati, Milano 1990 (pp. 152-153); Á. Szabò, The beginnings of greek mathematics, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht 1978; F. R. Levin, The Manual of Harmonics of Nichomacus the Pythagorean, Phanes Press, New York 1994. 
(15) A. Trimarco, L’angelo della critica, in Gillo Dorfles, pubblicazione edita in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria di Paestum, MMMAC, Fisciano 1999, p. 15. Ora, con lo stesso titolo, anche in Id., L’arte e l’abitare, Editoriale Modo, Milano 2001, pp. 48-51.
(16) G. Dorfles, L’intervallo perduto, cit., p. 18.
(17) G. Dorfles, Simulacri e luoghi comuni, Tempo Lungo Edizioni, Sarno (SA) 2002, p. 47.
(18) A. Tolve, Alcune curiosità sulle linee attuali dell’arte (e della vita). Un dialogo con Gillo Dorfles, in “ArsKey”, a. 1, n. 1, p. 78: “Io ho sempre sostenuto l’importanza di forme artistiche che abbiano un’immediata corrispondenza con la manualità e con la corporeità dell’artista. Naturalmente questo non significa privilegiare l’artigianato sugli altri procedimenti dell’arte. Tuttavia, l’uomo da sempre ha voluto dare e lasciare un’impronta del suo corpo. Detto questo, credo che oggi (o anche domani) l’efficacia della sua fisicità e della sua manualità, sia non solo inevitabile e imprescindibile ma, direi, anche quasi obbligatoria”.
(19) G. Dorfles, Se l’artista spegne il pc e torna a fare l’artigiano, in “La Lettura”, inserto domenicale del “Corriere della Sera”, a. 1., n. 3, domenica 27 novembre 2011, p. 3.
(20) A. Tolve, Horror pleni. La (in)civiltà del rumore. Un dialogo con Gillo Dorfles, in “Segno. Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea”, a. XXXIII, n. 220, luglio-settembre 2008, p. 96.
(21) Per tali questioni si veda A. Tolve, Gillo Dorfles. Arte e critica d’arte nel secondo Novecento, La Città del Sole, Napoli 2011. E particolarmente il capitolo L’autentico, l’inautentico, l’attuale in cui ho calibrato l’attenzione sulla produzione teorica di Dorfles dagli anni Novanta del Novecento al 2011. 

[english]

“But the dream fails and time returns us to the raucous towns where the sky shows only in broken pieces pinched high between the cornices of buildings.” 

Eugenio Montale

 

Gillo Dorfles has always been “both critic and painter”(1). The thoughts of Paolo Fossati which show, in fact, how Dorfles has a dual vocation, refers not only to that theme running through Movimento per l’Arte Concreta which saw him, with Gianni Monnet, Bruno Munari and Atanasio Soldati among the most important originators, actors and key players of a renewal of art in Italy, but also to a period (and to a programme) which, rediscovering and restoring links with some stylistic features of the historic avantgarde movements, draws attention to the various languages of art, the materials and the techniques, to a panorama which weaves together the world of architecture, industrial design, interior design and fashion, music, advertising billboards, sculpture and painting to create a universal aesthetic language, a fusion of the arts (2), which is not, and does not set out to be, a simplistic reopening or nostalgic re-evocation of the Gesamtkunstwerk, but a reflection on the various versions of human creativity and on the opening-up (or more specifically a concrete opening-up) of this creativity to daily needs. 

The Discorso tecnico delle arti, which appeared in 1952 in a series (Saggi di varia umanità) directed by Francesco Flora for the publishers Nistri-Lischi in Pisa, is indicative of a lively and distinctive artistic experience which is metamorphosed into a proposed theory for tackling in fact a discorso or discourse on relationships and interferences between the various artistic codes. A discourse which, although on the one hand is part of the aesthetic anti-Croce debate immediately after the War launched by Luciano Anceschi in times of peace with the essay Autonomia ed eteronomia dell’arte (1936), on the other hand underlines the importance of a tone and timbre rhythm which establishes “the real value of the light interval and of the sound interval” within the various idiomatic perspectives. Even noting “the need for an empty space, the need to create a particular spatial rhythm” which dominates the world of painting like that of music and poetry (3) or of the arts in general. 

To this aesthetological component which comes, in fact, from artistic practice and direct technical knowledge of the arts, Dorfles has dedicated, on various occasions, a series of crucial reflections to underline the need for a pause (Il ritorno della pausa was, in 1982, the title of a monograph edition of the magazine Taide)(4) , of a space of respect – for art, criticism and for the public – needed to redeem a lost interval “within the terms of a pause in that constant flow of perception in which we’re involved” (5), to seek an adequate space for detachment from the countless semiotic stresses of which the world today is pervaded and invaded. 

La Necessità d’un ricupero del fattore intervallare (6) appears, in fact, urgently and on several occasions, to highlight not only a constant ongoing progress of arts and criticism (7), a metamorphosis of daily life conditioned by the encroaching new, but also to “re-establish and set up from scratch a different role for our capacity for perception and taste” (8). This is what he states, for example, in a talk given at the Montecatini conference known, in the familiar environment of criticism and theory, by the syntagma Critica O (9). 

The “mysterious and intuitive laws of rhythm” (10) brought into play with the Discorso tecnico, a crucial area for the creation, for criticism and for enjoyment of the work, return in this way, in May 1978, to indicate an essential distance with respect to that “hyperwillingness to listen, to view, to receive in general [….] messages totally or partially – or unequivocally – aesthetic” which stress and corrupt, at times, the authenticity of an axiological opinion. 

After just two years, with L’intervallo perduto (1980) the consideration deepened to indicate an itinerary, a primary factor, dominance which traverses not only the territories “of artistic creation, but even numerous conditions of existence of our age” (11). “It is a question”, underlined Dorfles, “of regaining the ability, or rather the awareness of a diastemic ability. It is a question of noting how and why in some epochal events this constant-inconstant, so essential for every creation and all vital equilibrium, is present or not. It is also a question of distinguishing when some artistic phenomena arise or have arisen due to the absence or renewed presence of this interval factor” (12). An interval, a sintagma of time (13), a void and a pause which are a “crucial node for art and criticism” (Trimarco) (14) and, at the same time, a physiological need to regain within the planetary sign hypertrophy a “colossal and ubiquitous ‘pollution of images’ which our civilisation has never seen before” (15). 

It is in the wake of the intervallo perduto, the lost interval, that, in order to analyse the electrocardiogram of the trend in art, criticism and life, following the light path of the nyat (this is how the void is expressed in the Mahayana Sutra), Dorfles proposes a more human rebuilding of time: effective not only in reawakening minds in the grip of a now widespread “hypnotic mediality” which follows “the mechanisms of the hypnopaedia” (16) but also defining the last faint lines of authenticity. 

In order to claim victory against the simulacra and the commonplaces which create a homogenising pluralism or a homogeneity of diversity (Michaud) and put out the incipient fires of creative diversification, Dorfles then places on the chaotic scales of contemporary society and of cultural fraud (Clifford) a trend suitable for slowing down the earthquake of events in order to return to the relaxing purity of natural imagination, of the caro immaginar. 

In this perspective of thought the landscape put forward by Dorfles looks, in fact, with caution and firmness, towards a necessary recovery of manual skills and technique to generate an equally necessary aesthetic overhaul. And not only in the field of painting (and of art in general) but also in that of some territories linked to myths and rituals, mysteries and magic, the fantastic, natural and the human (17). For Dorfles it is important now, as the new millennium begins, to generate an antibody able to immunise humans, including the artist and the critic, against an overdose of artificiality. And also reawaken and increase the capacity for imagination of mankind starting in fact from manual and artisanal practice which reactivates “all relationships with our body” and reorganises “participation” in the “creative activities” of daily life (18). A return to the physical side which does not mean however abhorring the new means of communication and the new electronic instruments. Nor even less so abandoning the important technical and scientific conquests. But instead regain a fundamental relationship with our own corporality and with our own physiological essence, returning to an emotional model able to slow down the pace on the slippery slopes of presentism and appreciate again the instruments of life, of a fragile nucleus in which mental and manual, theoretical and practical are inextricably interwoven. 

Regaining a pause, a rhythm, an interval, means then for Dorfles (for the artist and for the theoretician) moving away from a pernicious horror pleni, from an (un) civility of noise (or from a “non-civility of information”) (19), from disturbing and vicious factoids, from a semiotic infection damaging to critical thought and to creativity. It means, finally, laying the educational bases (pedagogic and above all andragogic) effective in generating a correct, and very urgent, reflection on existence (20). 


(1) P. Fossati, Il movimento arte concreta 1948-1958. Materiali e documenti, Martano Editore, Turin 1980, p. 27.
(2) “The fusion among arts is a crucial problem”, wrote Franco Passoni in the twelfth Bollettino, “which is gradually taking on an increasingly pressing importance in the contemporary world. A fusion is not a brand new formula or a particular way of understanding or producing art. The fusion is the direct concurrence of technicians and artists, on a close cooperation level, for the ultimate achievement of something concrete in accordance with the function of harmony in the connection between the world of form, space and practical application of collective work. If we examine our era for the purpose of making a diagnosis, it is first of all absolutely necessary to note that the pace of production and construction hinges on acceleration. We claim that the product is the only and unmistakable subject on which we must all concentrate our efforts”. F. Passoni, Le arti e la tecnica, in “Arte concreta, bulletin no. 12” of the Concrete Art Movement, 15 February 1953, now also in S. Spriano, editor, I 15 bollettini del M.A.C., anastatic reprint, Galleria Spriano Edizioni, Omegna 1981, p. 65. 
(3) G. Dorfles, Discorso tecnico delle arti (1952), Christian Marinotti Edizioni, Milan 2003, p. 59.
(4) G. Dorfles, edited by, Il ritorno della pausa, monograph edition of the magazine Taide materiali minimi, a. 3, no. 4, September – December 1982, La Buona Stampa, Ercolano 1982. An edition set out by Dorfles by summoning, among others, an array of artists (Bertholin, Renato Boerio, Gerardo Dicrola, Jorge Eielson, Nino Longobardi, Enrico Luzzi, Mimmo Paladino, Ico Parisi, Angelomichele Risi, Nicola Salvatore and Irene Schwartz) to map out not only a happy terrain in which the theoretical design of an interval layout makes a comeback but also, following the programming lines of the gallery and magazine, a path dedicated to the “minimum material, i.e. the sketch, draft, the unfinished, the embryo, the magma” which, for Dorfles, “can become the true basis for something more”, not just a preamble to the authentic work, to the finished product, but also, and above all, a lively component, a place of energetic magma and interval in which to retrace the more authentic elements of the artistic procedure and work. “It is then”, suggested Dorfles, “in this interval between the still myokinetic moment of the gesture and the weighted one of the construction where, not always but often, the only trace of that infinitesimal time interval or corpuscle of the new, the genuine, the automatic, is concealed, of which we ourselves were not aware but which constitutes the only authentic base of all our later creations”. The pause, the interval and the minimum material (the latter traversed by a strictly creative viewpoint) also serve as roadmap for a personal reappearance by Dorfles, of the critic and aesthetologist now incontrovertible on a strictly academic level, in painting. 
(5) M. Musaio, Pedagogia del bello. Suggestioni e percorsi educativi, Franco Angeli, Milan 2007, p. 180. 
(6) G. Dorfles, È ancora possibile un giudizio assiologico?, in E. Mucci, P. L. Tazzi, Teoria e pratiche della critica d’arte. Proceedings of the Montecatini conference, May 1978, Feltrinelli, Milan 1979, pp. 15-17.
(7) To which Dorfles has dedicated two exemplary books, Il divenire delle arti (Einaudi, Turin 1959) and Il divenire della critica (Einaudi, Turin 1976).
(8) G. Dorfles, È ancora possibile un giudizio assiologico?, cit., p. 14.
(9) The syntagma Critica O”, as we read in the introduction to the publication of the proceedings, “could be read in different ways. One was that offered by the more formalised level equivalent to the meaning of the zero edition of a periodical publication. If the grapheme O maintained the meaning of number, a second level of reading was introduced, the zero degree of criticism. If instead the grapheme O was referred to the vowel or, as a disjunctive conjunction (and this interpretation was only possible in Italian), the syntagma took on the meaning of criticism or something else which criticism was not, or was no longer”. 
(10) G. Dorfles, Discorso tecnico, cit., p. 54.
(11) G. Dorfles, L’intervallo perduto, Einaudi, Turin 1980, p. 8.
(12) G. Dorfles, L’intervallo perduto, cit., p. 9.
(13) For this issue refer at least to Nicomaco di Gerasa, Manuale di Armonica, V, 244, in L. Zanoncelli, La manualistica musicale greca, Guerini e Associati, Milan 1990 (pp. 152-153); Á. Szabò, The beginnings of Greek mathematics, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht 1978; F. R. Levin, The Manual of Harmonics of Nichomacus the Pythagorean, Phanes Press, New York 1994.
(14) A. Trimarco, L’angelo della critica, in Gillo Dorfles, published on the occasion of the granting of honorary citizenship of Paestum, MMMAC, Fisciano 1999, p. 15. Now, with the same title, also in Id., L’arte e l’abitare, Editoriale Modo, Milan 2001, pp. 48-51.
(15) G. Dorfles, L’intervallo perduto, cit., p. 18.
(16) G. Dorfles, Simulacri e luoghi comuni, Tempo Lungo Edizioni, Sarno (SA) 2002, p. 47.
(17) A. Tolve, Alcune curiosità sulle linee attuali dell’arte (e della vita). Un dialogo con Gillo Dorfles, in “ArsKey”, a. 1, no. 1, p. 78: “I’ve always maintained the importance of artistic forms which have an immediate correspondence with manual skill and with the corporeality of the artist. Naturally this does not mean preferring craft over other artistic processes. However mankind has always wanted to give and leave an imprint on the body. Having said this, I believe that today (or also tomorrow) the efficacy of mankind’s physicality and manual skill is not only inevitable and unavoidable but, I would say, also almost obligatory”.
(18) G. Dorfles, Se l’artista spegne il pc e torna a fare l’artigiano, in “La Lettura”, Sunday supplement of Corriere della Sera, a. 1., no. 3, Sunday 27 November 2011, p. 3.
(19) A. Tolve, Horror pleni. La (in)civiltà del rumore. Un dialogo con Gillo Dorfles, in “Segno. Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea”, a. XXXIII, no. 220, July-September 2008, p. 96.
(20) For these questions see A. Tolve, Gillo Dorfles. Arte e critica d’arte nel secondo Novecento, La Città del Sole, Napoli 2011.
And in particular the chapter L’autentico, l’inautentico, l’attuale in which I drew attention to the theoretical output of Dorfles from the 1990s to 2011. 

(Tratto da/from: NB. I linguaggi della comunicazione, Parola Critica, Numero/Issue 1, Anno/Year Logo Fausto Lupetti, Milano 2015.)