Le prospettive critiche di Dorfles in architettura

L’architetto di fama mondiale, allievo di Le Corbusier, ripercorre un secolo di critica che ha per protagonista Gillo Dorfles.

Intervento raccolto in occasione dei talk “Parola critica” (Museo MACRO, Roma – febbraio 2016) organizzati dal Centro interdisciplinare di ricerca sul paesaggio contemporaneo

nell’ambito della mostra antologica Gillo Dorfles. Essere nel tempo (Museo MACRO, Roma | 27.11.2015 – 17.4.2016)

 

È raro trovare un personaggio come Dorfles che ha attraversato e vissuto, in tempo reale e in prima persona, praticamente tre generazioni: ciò gli permette uno sguardo disincantato, uno sguardo al di là delle mode culturali, al di là delle passioni ideologiche che possono aver alimentato i differenti momenti. La cosa impressionante è che si rivivono i differenti innamoramenti che la cultura artistica ha avuto nei secoli, ma in una forma quasi un po’ distaccata, poiché non vi è mai una partecipazione così accalorata; Dorfles fa costantemente riferimento alla realtà e non ai miti che talvolta, invece, la critica costruisce.

Vi è, fin dall’inizio, questa sua passione per la multiculturalità o, se vogliamo, per la transdisciplinarietà che – da Terragni a Sant’Elia, da Tafuri a Kenneth Frampton, fino alla critica contemporanea dell’architettura – è ancora per Dorfles una chiave di interpretazione di grandissima attualità.

Di recente Dorfles è venuto all’Accademia di Mendrisio per dare un suo punto di vista su una pubblicazione dedicata ad Angelo Mangiarotti dalla nostra scuola. La cosa sorprendente è stata che lui parlava al presente! Ed è anche questa la forza di un testimone diretto delle trasformazioni di cui parla.

Credo che la sua lettura sia profetica perché tocca temi presenti ancora oggi nel dibattito architettonico. Nel 1930, a vent’anni, scrive “Preoccupazioni architettoniche attuali”: ottantacinque anni fa quest’uomo già scriveva riflessioni sul fatto architettonico. Sosteneva cose interessanti e sorprendenti per quell’epoca, ma anche per oggi: “L’architettura è il prodotto dell’evoluzione della pittura d’avanguardia.” Cioè non lega il fatto architettonico a una disciplina propria – come quella che la storia dell’architettura aveva via via maturato – ma, al contrario, afferma che le avanguardie artistiche sono la matrice operativa del fatto architettonico. In altre parole, scrive che il fatto architettonico non è vero che si regge sull’aspetto tecnico, funzionale, distributivo – quindi disciplinare – del costruire, ma trova la sua ragione più profonda nello spirito che le avanguardie hanno colto. Dorfles tratta gli architetti immediatamente accanto agli artisti che frequenta – Le Corbusier accanto a Ozenfant, Arp, El Lissitzky, Jeannert – in un rapporto dove le arti plastiche diventavano elementi per sorreggere anche la critica dell’architettura. Scrive ancora, citando Le Corbusier, “I pieni e i vuoti costituiscono gli elementi del fatto architettonico”. Gli elementi architetturali non sono le costruzioni ma le relazioni spaziali che le costruzioni determinano col paesaggio, con l’intorno, con il contesto. Qui Dorfles introduce lo spazio-tempo, e non solo dell’oggetto architettonico. Abbiamo dunque una moltiplicazione dei punti di vista dentro l’opera artistica e pittorica che Gillo Dorfles interpreta anche nell’opera architettonica. Le jeu savant correct et magnifique des volumes assemblés sous la lumière di Le Corbusier diventano una chiave di lettura non più del manufatto architettonico, ma delle relazioni spaziali che vengono a stabilirsi. Quindi la spazialità plastica dell’architettura razionale introduce quello che sembrava un paradigma fisso di una razionalizzazione degli spazi della composizione architettonica e poi, nel processo di produzione così razionale, introduce l’elemento della dissonanza, della rottura. È allora chiaro che, quando da noi a Mendrisio, Dorfles diceva “Attenzione, che Mangiarotti era già il più barocco degli architetti…” intendeva che era colui che, già negli anni Cinquanta, rompeva il razionalismo rigoroso dello studio BBPR.

 

Mario Botta

 

Poi altri a due scritti fondamentali: “Spazialità e plastica nell’architettura moderna” (1946) e “Barocco nell’architettura moderna” (1951): l’architettura come banco di prova per le nuove letture semantiche. Rapporto dei segni, dei significati, che non possono più essere quelli tecnici, funzionali, ma che diventano quelli simbolici, metaforici, psicologici con cui si confronta il fruitore.

Un altro aspetto interessante è il rapporto che Gillo Dorfles instaura con Rudolf Arnheim che, in America, gli consegna il suo scritto “Arte e percezione visiva” che poi Gillo tradurrà in italiano, partecipando a pieno titolo come critico nel dibattito semiologico: la percezione del linguaggio architettonico diventa un elemento importante come la percezione del linguaggio artistico.

Arriviamo agli anni Sessanta e al “disastro” della cultura postmoderna, nata per interpretare al meglio, si diceva, i bisogni dell’uomo del tempo e che poi in realtà è diventata un cartoon, una caricatura, dei bisogni dell’uomo. Il bisogno di memoria, il bisogno di passato, il bisogno autentico di storia che la cultura in quel momento sentiva, si è preferito fosse la caricatura del postmoderno, per poi confondere gli stili con la storia.

Possiamo arrivare quasi ai nostri giorni, quando Dorfles mette in guardia sia la critica che gli operatori sul rischio di tradurre modelli complessi del vivere – dovuti alla rapidità e alla complessità delle trasformazioni del territorio – attraverso ricette semplici, come quella del postmoderno.

Interessante la riflessione di Dorfles su aspetti solo apparentemente marginali e che sfuggono al giudizio sommario con cui la cultura moderna ha inglobato tutto il possibile e che toccano, invece, problemi di fondo. Egli si chiede: “È possibile oggi un’architettura veramente attuale che sia anche sacra? La costruzione dello spazio sacro può prescindere dall’apparato simbolico?”. A queste domande risponde in maniera molto onesta: “Io rivendico la sacralità dell’arte in sé. L’architettura porta con sé l’idea del sacro, poiché trasforma una condizione di natura in una condizione di cultura; e una condizione di cultura è una condizione di speranza del progetto.” Quindi i temi che restano sul tavolo sono i temi dei significati, al di là della risposta tecnica che motiva il fatto architettonico.

Ci viene chiesto di costruire una casa, un ospedale, una scuola, pretesto un tetto, una protezione ma, evidentemente, questa è la domanda tecnica; ma l’architetto deve rispondere anche in altri termini. Nella casa c’è l’idea del rifugio, nell’ospedale c’è l’idea dell’uomo che si confronta con sé stesso e la propria malattia, nell’idea di uno spazio di silenzio e di meditazione c’è il bisogno di immensità che sorregge il lavoro stesso dell’architetto.

E poi viviamo la trasformazione del referente. Il referente che esisteva durante il movimento moderno era un uomo colto, un uomo che aveva – almeno come obiettivo – uno status sociale avanzato. Nel movimento moderno lavoravamo per una società migliore, dove la produzione doveva essere all’altezza della richiesta di una casa onesta, per una città funzionale, per un possibile progresso attraverso l’industrializzazione: elementi che sono andati oggettivamente traditi. La mia generazione ha visto il tradimento continuo degli ideali, degli architetti, degli artisti più illuminati, che poi sono stati via via trasformati. L’Existenz Minimum, nato per rispondere ai bisogni della guerra, è stato proposto come Existenz Maximum della speculazione edilizia. Tutti quegli standard, quegli slogan, che venivano dati come denominatori minimi per una migliore qualità, si sono poi trasformati in connotati massimi di quello che la speculazione è riuscita a formulare.

La trasversalità delle discipline, intuita da Dorfles, resta un dato oggettivo.

Nella scuola di architettura di Mendrisio, alla fine dell’anno scolastico non c’è professore che non chieda alla direzione di moltiplicare i suoi insegnamenti con aspetti collaterali. Questa è una nuova forma di modernità liquida – come la chiama Bauman – ma in senso positivo. Scienze che concorrono a completare e “inquinare” quelle che erano le discipline dirette e specifiche del sapere. E queste nuove condizioni, sul quale noi siamo chiamati a dare delle risposte attraverso la rapidità delle trasformazioni, non permettono più neanche la riflessione progettuale. E l’uomo qualunque è il nuovo fruitore al quale noi dobbiamo fare riferimento, il nostro interlocutore.

Ecco, allora, che nei suoi ottantacinque anni di riflessione critica continua, Dorfles è stato in un certo senso profetico: pensiamo ai suoi scritti che variano dalle discipline artistiche, al kitsch, all’ambiente, ai profumi, a tutta una serie di elementi collaterali che sono colti da un uomo d’arte, non nello specifico scientifico dei margini di una disciplina, ma a livello di fruizione del paesaggio e, quindi, di aspirazione a una condizione di vita futura. Di fatto, le nuove componenti che dovranno modellare il nostro modo di vivere e le nostre proiezioni, per cercare di dare un po’ più di gioia di vivere: l’obiettivo per il quale tutti noi lavoriamo.

Nessuno di noi riesce neanche a intuire le trasformazioni che caratterizzeranno non i prossimi decenni, ma i prossimi anni. Le nuove scoperte scientifiche, di cui ogni settimana siamo aggiornati, ci fanno vedere come le chiavi di lettura che noi avevamo dato devono essere costantemente riviste. Resta l’impegno: l’insegnamento di Dorfles resta l’insegnamento etico. Lui non si è mai piegato a nessuna moda culturale: quando si doveva chiamare la moda kitsch, ha chiamato la moda kitsch e ha dato una connotazione critica, e poi ne ha letto anche gli aspetti positivi. La sua grande visione del mondo gli permette quello che forse noi, nell’esperienza faticosa all’interno del nostro mestiere afferente a una sola disciplina, non riusciamo ad avere.

Dorfles ha sempre un approccio che relativizza il giudizio: non si è mai innamorato troppo, neanche delle idee più belle. Ha avuto la capacità di uno sguardo critico anche difronte alle attrazioni più fantastiche; e questo è dato dal fatto che ne ha vista passare d’acqua sotto i ponti… Probabilmente per noi è più difficile, perché ogni volta che abbiamo un’illuminazione ci sembra che questa sia la chiave di volta. Lui invece è sempre un po’ scettico e questo è dato dal suo temperamento, dalla sua integralità etica nel valutare le cose attraverso un giudizio filtrato.

L’altro giorno, Aldo Colonetti mi diceva che è rimasto molto imbarazzato perché Dorfles ha dato lezioni a Gualtiero Marchesi su come si dovesse preparare il risotto con l’oro! Gillo è come un comandante, è un principe del suo essere e ha questa condizione di non mollare mai, neanche a tavola, fino a mettere in difficoltà uno chef che è lì per festeggiarlo.

L’anno scorso, quando sono stato a casa sua, mi ha fatto vedere la sua camera, e lì c’erano tre valigie: “Questa è quella delle 24 ore, questa è quella delle 48 e questa è quando sto via una settimana.” Lui programma: a centoquattro anni, ha le valigie sempre pronte per partire. Questa è la forza che può avere chi matura un secolo di vita, noi saremo sempre perdenti difronte a Dorfles.

Nell’ultima sala di questa mostra (Gillo Dorfles. Essere nel tempo, n.d.r.) ci sono suoi dipinti. che hanno delle difficoltà; ma, la forza di Dorfles è data anche dalle sue debolezze. Quando ha questi tratti alla Kandinsky o alla Klee, si vede che non ha la felicità di Kandinsky o di Klee: il suo tratto è un tratto pieno di fatica e pieno di perplessità; ha consapevolezza critica perfino nella sua forma espressiva.

I mezzi e i registri linguistici che lui padroneggia sono molti: dal pensiero, alla scrittura, al giornalismo. Non possono essere quelli di un Giacometti, dove vi è unitarietà di interesse per il volto con la consapevolezza di “non saper fare quel volto” e la molteplicità degli interessi di Dorfles dà delle indicazioni interessanti. Qual è il dipinto che può reggere un confronto così complesso di una storia che non è quella di un uomo, ma quella delle avanguardie del XX secolo? Inevitabile che si scontri con i limiti della mano.

Gillo mi ricorda moltissimo un altro grande personaggio: Friedrich Dürrenmatt, che ha lasciato che tutta la sua attività pittorica fosse esposta e resa pubblica soltanto dopo la sua morte e che ha lasciato scritto: “So che dipingo come un bambino, ma non sono un bambino. Dipingo per le stesse ragioni per cui scrivo, poiché penso”. Quindi dava al fatto pittorico un carattere metaforico: “Lo so che non ce la faccio a dipingere, però il fatto che io dipinga mi aiuta anche nel mio pensiero letterario”. E questo appartiene a grandi personalità che, non solo hanno un’attività multipla – pensiamo a Pasolini o Montale – ma, soprattutto, questa consapevolezza.

Dorfles ha avuto la fortuna di vivere la Milano del design, una Milano irripetibile se pensiamo a quella condizione particolare che chiamiamo “design italiano”. E quando Dorfles parla del territorio, parla di un’architettura regionalista che ha nel contesto la sua misura.

Viaggiando molto, mi è capitato di dover dare una motivazione al fenomeno della moda italiana (soprattutto targata Milano) che, vista dall’esterno, è una cosa che ti colpisce. Non è un fenomeno solo legato a qualche stilista, o legato al mercato, o legato alle multinazionali di Armani o di Prada: c’è una “realtà del fatto estetico” che connota la moda nelle sue variazioni e che ha come denominatore positivo comune la trasversalità delle arti. Biologia, antropologia, botanica e tante altre discipline trovano nella moda un denominatore comune che le sa interpretare e modellare. La moda italiana è la forma espressiva che più ha saputo trasformare questa condizione di società liquida in un fatto estetico.

Dorfles parla sempre dell’architettura come un elemento per far interagire il paesaggio. Non a caso ama Frank Lloyd Wright; e se togliamo a Wright il paesaggio, cosa resta? Dorfles ha intuito che la forza del fatto architettonico non è il manufatto, ma le relazioni che il manufatto stabilisce col contesto. Abbiamo molti altri critici oggi che, invece, giudicano l’oggetto. Ma anch’io, come Dorfles, ho molte perplessità rispetto all’architettura contemporanea così come viene presentata, perché sono degli oggetti ingranditi – taluni mediocri, qualcun altro di grande qualità – dove si sente una tensione plastica forte, ma dove manca il dialogo con il contesto. L’architettura è sempre una parte costitutiva della città e che la trasforma con il segno del nostro tempo. E quando, ad esempio, è in un contesto rurale? non ce la fa! Perché l’oggetto della “casa delle pecore” è molto più in equilibrio con quel contesto per i materiali e per la spazialità: non c’è l’arroganza dell’edonismo di un’immagine sovrapposta alla funzione e che diventa caricaturale.

Oggi però, questi sono discorsi perdenti. Perché se vediamo il mondo come va avanti, se vediamo come le città vengono costruite, sappiamo che il mandato che viene dato all’architetto è per cinquant’anni, poi il panorama cambierà. Perciò gli architetti sanno che le loro opere sono fragili e che nessuno sa dire cosa succederà fra cinquant’anni. Ma, intanto, condannano per cinquant’anni la gente a vivere dentro a questi casermoni, dove rischi di non saperti orientare e di andare da un altro inquilino. Del resto, sappiamo che con il nostro lavoro di architetti possiamo, nel migliore dei casi, cambiare l’architettura ma non riusciremo mai a cambiare la società.

Le difficoltà nel nostro approccio all’opera totale di Dorfles sono che, da un lato, riconosciamo la sua forza critica e teorica, la sua capacità di interpretare un secolo di storia commettendo pochissimi errori (sono ben pochi i critici che hanno resistito alla prova dei decenni successivi); dall’altro lato, però, esitiamo a riconoscergli la possibilità di esplorare anche forme più legate al suo personale bisogno espressivo. È come pretendere da qualcuno il massimo, sempre e da tutti i punti di vista.

Negli anni Ottanta ho progettato delle banche, cercando di fare del mio meglio, come sempre cerco di fare attraverso il mio lavoro. Oggi, a distanza di pochi decenni, queste banche non esistono più. Come architetto, devi trovare una ragione profonda che motivi il tuo lavoro (dare spazio alla comunità, attraverso la progettazione di banche, uffici postali, etc.), salvando così la tua reputazione e, soprattutto, te stesso. Ma se la misura del servizio fornito è riconosciuta solo in termini tecnici, distributivi e funzionali, allora siamo morti. Il nostro lavoro, paradossalmente, parte dalla domanda di assolvere a delle precise funzioni, ma poi resta come testimonianza della storia del proprio tempo. Ma il fatto architettonico, al di là della forma iconica e della capacità espressiva dell’architetto, diventa poi potente espressione formale della storia e, quindi, anche delle ambiguità, delle contraddizioni, delle colpe di determinata collettività. Soltanto se il fatto architettonico riesce ad avere una forma espressiva che va al di là della risposta per la quale ti hanno pagato, diventando un segno della speranza del tuo tempo, resta. L’architettura è sempre testimone del suo tempo, ma solo se mostra un plusvalore d’interpretazione può sopravvivere al tempo. Così l’ambiguità che viviamo nella lettura dell’opera totale di Dorfles nasce probabilmente dal fatto che conosciamo e condividiamo in maniera più diretta, più facile, la sua interpretazione critica del mondo attraverso i suoi scritti; mentre la sua pittura ci interroga – ed è naturale che una forma espressiva artistica ci interroghi.

Una considerazione finale: non dobbiamo meravigliarci che Dorfles abbia dipinto, suonato, scritto poesie. Le differenti forme espressive sono complementari l’una all’altra e completano un unico grande discorso: quando visiti questa mostra antologica di Dorfles, il suo segno e il suo registro linguistico sono subito chiaro. Franco Purini rileva nella produzione artistica di Dorfles la composizione di segni che ritornano con significati diversi e questa non è che la controprova che si tratti di un vero artista: la sua pittura ha una riconoscibilità immediata, quindi un registro linguistico molto chiaro con cui racconta cose diverse, come sono diverse le storie del mondo. Anche il segno di Klee, se ne vedi all’inizio solo qualcuno, ti può creare delle perplessità; poi vedi che, invece, questo è un segno ed è una ricerca. Quindi il segno è lo strumento del linguaggio, ma il linguaggio può dire cose diverse. Picasso, con lo stesso linguaggio, tratta Les demoiselles d’Avignon, l’elogio della bellezza e della disponibilità femminile, e Guernica, il grido di dolore contro l’uomo che uccide il suo simile. Un unico linguaggio, per dire cose diverse.