Brani urbani
Urban pieces
Intervista a Giorgio Battistelli
di Fulvio Caldarelli.
L’intervallo perduto. Anche in musica, lo spazio diastemico è elemento imprescindibile del processo percettivo: dispositivo funzionale all’attribuzione di discretezza all’interno del flusso sonoro. Il paesaggio urbano contemporaneo produce spesso in chi vi abita un patologico horror pleni; anche la sensibilità del compositore di musica contemporanea avverte la diffusa urgenza di ristabilire intervalli perduti?
L’orrore del silenzio, di un vuoto che è anche portatore di ambiguità, spesso non ha ragione di essere: paradossalmente, oggi, siamo circondati dal silenzio. Di fatto, un eccesso di densificazione del suono produce silenzio. È qui che l’intervallo può rivestire una funzione di equilibrio. E l’intervallo è sempre una conquista. Un’architettura musicale è sempre una relazione tra un precedente e un conseguente. La questione non risiede tanto nella densità del pieno e del vuoto, quanto piuttosto nella percezione dell’apparenza dell’esserci o del non esserci. Sicuramente il sistema percettivo di dell’ascoltatore contemporaneo è profondamente cambiato rispetto anche a soli venti anni fa. La modalità di ascolto si è spostata da una percezione diacronica orizzontale a una posizione verticale: siamo in grado di ascoltare composizioni che appartengono a un passato molto remoto e, allo stesso tempo, produzioni musicali del nostro presente. L’ascolto, svincolato da prospettive temporali e spaziali, si è fatto verticale. Se penso all’ascoltatore del nostro tempo, lo immagino con un grande occhio e un piccolo orecchio. Direi che più che la paura del silen- zio, la questione cruciale è che non siamo più capaci di ascoltare, non soltanto a causa dell’ipertrofia e dell’abnorme produzione di suoni che ci circonda. Il punto è che non possediamo più gli strumenti per penetrare attraverso il suono. E quindi l’ascolto viene completamente divorato e fagocitato dalla visione.
Senza dubbio stiamo vivendo una trasformazione culturale e antropologica dell’ascolto velocissima. Non soltanto perché si sono annullate queste prospettive storiche, ma anche in virtù delle nuove modalità di fruizione e delle nuove dimensione rituali riconducibili alla musica. Ancora oggi, assistere a un concerto è una scelta intenzio- nale molto precisa, tuttavia, ad essere cambiate radicalmente sono le aspettative di ascolto. Il nostro orecchio è ormai tridimensionale. I dispositivi tecnologici hanno viziato la nostra abilità sensoriali: un’alterazione del sistema percettivo che non interessa soltanto le performance live di musica pop o rock, ma che deforma anche le aspettative del pubblico della musica classica e della cosiddetta ‘musica alta’. Di fatto, abituati ad ascoltare musica con sistemi di riproduzione e diffusione ad Alta Fedeltà, recandoci a un concerto, rischiamo di rimanere delusi dalla mancanza di profondità e ricchezza del suono tipica della riproduzione tecnologica. Probabilmente, poi, è cambiata anche la concezione e la funzione di rumore. Nella musica d’arte occidentale, il rumore è stato sempre considerato quell’entità sonora che vive al di fuori del sistema temperato. Il sistema temperato è quel sistema su cui è costruita tutta la musica occidentale: sono i dodici suoni razionalizzati da Bach ricondotti successivamente a sistema dodecafonico da Arnold Schoenberg nel secondo decennio del Novecento. Tutti i suoni che si muovono al di fuori di questo sistema sono stati considerati finora ‘rumori’. Oggi, invece, si considera ‘rumore’ tutto ciò che interrompe una comunicazione. Se durante la nostra conversazione arrivasse alle nostre orecchie il suono di un violino, quelle note così struggenti non sarebbero altro che un’interferenza: un elemento che disturba il nostro processo comunicativo.
La sensibilità è figlia della conoscenza. In questa società dell’informazione, la diffusa accessibilità del sapere può contribuire alla nascita di una nuova coscienza dell’ascolto?
A questo proposito, mi piace ricordare una citazione di Roland Barthes “Abbiamo perduto la sapienza per la conoscenza”. Ecco, a mio avviso, recentemente abbiamo perso la conoscenza per l’informazione. L’informazione ha prodotto un’omogeneizzazione della percezione più che un innalzamento qualitativo delle nostre capacità di ascolto. La speranza è che tutte queste possibilità di conoscenza a nostra disposizione possano invece determinare una profonda rivalutazione del livello espressivo, anche a discapito dell’eccessiva attenzione rivolta al livello tecnico. Spesso ci si sofferma troppo sugli aspetti tecnici, trascurando l’aspetto fondamentalmente intuitivo del momento espressivo: a volte, attraverso la forza espressiva di un gesto o di una dinamica si possono rendere assolutamente insignificanti e marginali certe carenze tecniche. Del resto, quando mi trovo di fronte a un’opera di Francis Bacon quello che mi colpisce immediatamente non è l’elemento tecnico, ma l’elemento espressivo che predomina.
Qual è la forza immaginifica dello scenario urbano proposto da un’opera scritta per andare in scena nel 2011, come rilettura del saggio An Inconvenient Truth di Al Gore sulle conseguenze climatiche globali dell’inquinamento del Pianeta?
In una Scomoda verità la città sarà presente come entità totale. E quindi col proprio respiro, coi propri suoni, con le proprie immagini, con la propria vita, con la propria dinamica. Sarà proprio questa presenza multiforme ad essere interiorizzata dal teatro. L’architettura e il movimento delle persone che vivono la città raggiungeranno il palcoscenico del Teatro della Scala. Per una delle sezioni elettroniche dell’opera ho deciso di sperimentare delle telecamere e dei sensori acustici che, collocati in alcuni punti di Milano, cattureranno immagini e suoni per riportarli, in presa diretta, all’interno del teatro. Questi segni e segnali entreranno in relazione con alcuni elementi dell’orchestra e modificheranno così il suono live. Forse una scelta dettata dal mio desiderio di trasformare tutta la realtà in musica: la mia volontà di tradurre un presente sempre più misterioso, perché in continua trasformazione. Devo confessare che quando mi è stato commissionato questo progetto, mi sono subito posto l’interrogativo se avesse ancora senso nel XXI secolo scrivere un’Opera e, soprattutto, attraverso quale registro narrativo: epico e mitologico? Oppure sarebbe stato più opportuno seguire le orme del romanzo post-moderno? Tra l’altro il progetto che mi veniva affidato, sarebbe stato presentato nel 2011 in occasione delle celebrazioni del 150° anniversario dell’unità d’Italia. Alla fine ho scelto di proiettare l’Italia in una dimensione globale, attraverso dei contenuti che mettessero al riparo da prese di posizione puramente ideologiche o da logore diatribe politiche. In altri termini, se la mia opera doveva poter comunicare al pubblico di Sydney come a quello di Bombay: il tema doveva essere necessariamente universale, anzi, tragicamente universale. E il rapporto tra l’uomo e l’ambiente mi è sembrato il tema perfetto, anche da un punto di vista drammaturgico. Il testo di Al Gore mi ha subito affascinato. E non è la prima volta che arrivo a convincermi che la scrittura saggistica stimoli l’immaginario collettivo più della poesia e della prosa. La saggistica offre oggi un perimetro immaginario spesso più ampio rispetto alla letteratura, forse più lenta nell’appropriarsi delle questioni che riguardano l’attualità. Quasi che il romanzo abbia esaurito gran parte della sua forza immaginifica di proiezione.
[english]
Interview with Giorgio Battistelli
by Fulvio Caldarelli
The lost interval. In music too, the diastematic space is fundamental in the perceptive process, a functional device for the attribution of discretion within the sound flow. The contemporary urban landscape often produces in those who inhabit the space, a pathological horror pleni. Thanks to his sensitivity the con- temporary music composer is also aware of the widespread sense of urgency, the need to re-establish lost intervals
The horror of silence, a void which is also a carrier of ambiguity, often has no reason to exist; paradoxically, nowadays we are surrounded by silence. Actually, an excess of sound densification produces silence. This is where the interval can act in offering equilibrium. And the interval is always a conquest. The question is not so much in the density of the full and the empty, rather it is in the perception of the appearance of being there or not. Certainly, the perceptive system of the contemporary listener has changed radically compared to only twenty years ago. How people listen has shifted from a horizontal diachronic perception to a vertical position. We are able to listen to compositions which belong to a very remote past and, at the same time, musical productions of our own time. Listening, freed of temporal and spatial perspectives, has become vertical. I imagine the listener of our times with a large eye and a small ear. I would say that rather than fear of silence, the crucial question is that we are no longer capable of listening, not only as a result of of hypertrophy and the abnormal production of sounds all around us. The point is that we no longer possess the instruments to penetrate sound. Thus, listening is completely devoured, swallowed up by vision. Without doubt we are living through a cultural and anthropological transformation of very fast listening. Not only because these historical perspectives have been annulled, but also in virtue of the novelty in fruition and the new ritual dimensions which lead back to music. Still today, being present at a concert is a very precise intentional choice; what has changed radically are the expectations which accompany listening. Our ear is by now three-dimensional. Technological devices have corrupted our sensorial abilities. An alteration in the perceptive system, not only as far as live performances of pop and rock music are concerned, but which also deforms the expectations of a classical music audience and so called ‘elevated music’. We are now used to listening to music with high fidelity reproduction and distribution systems, so going to a concert, we risk being disappointed by the lack of depth and richness of technological reproduction.
And then probably the conception and function of noise has changed too. In western music noise has always been considered that sonorous entity which lives outside the tempered system. The tempered system is that on which all western music is founded – the twelve sounds rationalised by Bach which become the dodecaphonic system conceived by Arnold Schoenberg in the 1920s. All the sounds which move outside this system have been considered up to now ‘noises’. Nowadays, though, what is considered ‘noise’ is all that which interrupts communication. If, during our conversation the sound of a violin reached our ears, those all-consuming notes would be nothing other than an interference, an element which disturbs our communicative process.
Sensitivity is the child of knowledge. In this information society, can the widespread accessibility of knowledge contribute to the birth of a new consciousness of listening?
In this respect, I would like to recall a quotation by Roland Barthes “We have lost wisdom for knowledge”. The way I see it, we have recently lost knowledge for information. Information has produced a homogenization of perception rather than a qualitative increase in our capacity to listen. The hope is that all these possibilities for knowledge at our disposal might actually lead to a deep revaluation of the expressive level, even to the detriment of the excessive attention given to the technical aspect. Often we concentrate too much on technical aspects, neglecting the fundamentally intuitive aspect of the expressive moment. At times, by means of the expressive force of a gesture or a dynamic we can render completely insignificant and marginal, certain technical deficiencies. Moreover, when I find myself looking at a work by Francis Bacon, that which strikes me immediately is not the technical but the expressive element.
What is the imaginative strength of the urban scenario offered by an opera written to be performed in 2011, as a rereading of Al Gore’s essay An Inconvenient Truth on the global climatic consequences of pollution for the planet?
In An Inconvenient Truth the city will be present as a total entity. And thus, with its own spirit, its own sounds, images, life, its own dynamics. It will be precisely this multiform presence which will be interiorized by the theatre. Architecture and the movement of the people who live the experience of the city will also have a place on the stage at the Teatro della Scala. For one of the electronic sections of the work I have decided to experiment with cameras and acoustic sensors which will be arranged at certain points around Milan and will capture images and sounds and bring them, live, inside the theatre. These signs and signals will come into contact with certain elements of the orchestra and will thus modify the live sound – perhaps a choice dictated by my desire to transform the whole reality into music. What I want is to translate the present, ever more mysterious because it is in continuous transformation.
I have to admit that when I was commissioned this project I immediately asked myself if it still made sense in the 21st century to write an opera and above all in what narrative register, epic or mythological? Or would it have be better to follow in the tracks of the postmodern novel? And the project is to be presented in 2011 on the occasion of the celebration of the 150th anniversary of the Unification of Italy. In the end I have chosen to show Italy in a global dimension, using contents which avoid the arrival at purely ideological positions or hackneyed political diatribe. In other words, if my opera was to be able to communicate say to the public of Sydney like the public of Bombay, the theme had necessarily to be universal, tragically universal even. And the relation between man and the environment seemed to me the perfect theme, from a dramaturgical viewpoint also. Al Gore’s book fascinated me from the start. And it is not the first time that I have managed to convince myself that essay writing stimulates the collective image inventory more than poetry or prose. Essay writing nowadays offers us an imaginary perimeter often wider with respect to literature, perhaps slower in the appropriation of those questions which concern topicality. Almost as if the novel had exhausted most of its imaginary force of projection.