La città senza nome
The nameless city
Si può allestire oggi una teoria della città, largamente accettata e che superi la accezione pratica e concettualmente inutile di growth machine? Tra il marxismo umanistico e filosofico di H. Lefebvre e la political economy statunitense, per dirla nella maniera più rischiosamente approssimativa ma, per intenderci a tutti i costi, le case e i luoghi dell’esistere, dell’incontro e dello scambio, delle regole e della gestione degli abusi, dell’organizzazione della vita e dello spazio per l’arte…che cosa furono, che cosa sono, che cosa diverranno? Ritengo che si debbano fare i conti con vari fattori, che è complicato perfino elencare, ma con i quali bisogna pur lavorare.
In primo luogo, il cervello dell’uomo è un viscere ontologico e, studiandolo (dal neurone alle strutture del comportamento), anche noi del mestiere dimentichiamo o forse trascuriamo che, se il cervello pensa, è il ‘nostro’, ma se sta sotto il microscopio (tomografie e risonanze funzionali incluse), è quello dell’uomo, per dire così, ‘altro’;
In secondo luogo, non è in campo soltanto un semplice pensiero olistico, del quale ci si può fidare solo un po’, ma l’ evoluzione delle quattro basi del Dna , da non dimenticare, perché adenina, citosina, guanina, timina hanno determinato sequenze variabili e possibile futuro biologico degli abitanti di questo pianeta. Infine, l’aggiornamento del sé e del sé nel mondo, che riguarda milioni di uomini i quali stanno mutando comportamenti e modelli di vita in relazione al passato che c’è e al futuro, fatto dalla storia che è compendio.
I trasporti a basso costo energetico e la comunicazione a distanza, così come la presenza in città di sempre maggiori popolazioni di non residenti, aprono il problema dell’inflazione identitaria, che può ridurre il cittadino a essenziale comunicatore. Siamo arrivati senza scampo alla città digitale, con le difficoltà di portarci subito dentro l’uso di immaginazione e di pensiero.
È l’utopia del progresso e della città umanamente attesa.
Viene il desiderio di ripensare e riflettere anche alla vecchia maniera, di tornare all’importante convegno romano, che metteva insieme, come del resto si sta facendo qui, opinioni usando li con il linguaggio e la dimensione della storia, che forse la Città Eterna imponeva d’ufficio.
Françoise Choay, che Gillo Dorfles definiva, presentando la relazione da lei inviata, come una delle punte massime della cultura metropolitana urbanistica per i suoi corsi alla Sorbona, i suoi libri, le sue antologie sull’urbanistica, in occasione dell’incontro romano Segni e segnali della città moderna, titola il proprio contributo Dal nome della città all’immagine della non città. Questa studiosa dell’urbanistica moderna ha fatto riferimenti e riflessioni sulle strategie capaci di migliorare il rendimento e dunque la vita di chi c’è dentro, di quell’ ‘oggetto tecnico detto città’, anche in riferimento a Roma. Al momento attuale sono argomenti di ‘marketing’ urbano nel quale giocano un ruolo importante gli architetti, gli economisti, i designer e gli esperti di comunicazione. Nessuna di queste qualifiche mi appartiene, ma è impossibile non notare che si usano sempre parole come ‘città’, ‘identità’, ‘immagine’, e in queste o un po’ mi sento coinvolto.
La Choay ricorda che si tratta di parole polisemiche predilette da politici e tecnocrati, usate soprattutto per rassicurare sé stessi. Infatti rimandano a temi importanti della sociologia, abusati ma per certi versi ancora occulti, perché, pur non essendo strettamente di natura tecnica sono imposti dalle tecniche costruttive. Di fatto riguardano problemi della ‘società’ che si rifanno ad un’antropologia di base che è fondamentale.
Attualmente vi sono infrastrutture a rete che hanno statuto di manufatti tecnici e investono allo stesso modo città antiche e antiche campagne disaggregando le une e le altre. Dice ancora la Choay che la parola è ambigua poiché, in quanto, la città si è trasformata ed al suo posto si trovano configurazioni incerte e instabili, che non sono più rette da una logica di articolazione legata alla storia e al territorio, ma obbediscono ad una logica di ‘giusta posizione’ di oggetti tecnici. Si è soliti dire con Melvin Webber che si tratta di ‘post-city age’ per mostrare questo divorzio consumato fra urbs e civitas. Nella città tradizionale queste due identità (urbs e civitas) erano solidali e conferivano all’istituzione urbana il suo statuto antropologico.
De Chirico scrisse un giorno che “ci sarà un tempo non molto lontano che si riconosceranno le città come si riconoscono due gemelli, per qualche segno particolare: San Pietro distinguerà Roma da Milano, il Vesuvio Napoli da Torino”. Tale assimilazione di un frammento, così immaginabile visivamente, a una totalità urbana è un cattivo privilegio conferito ai monumenti storici, perché alla identità simbolica delle città è opportuno corrisponda un nuovo statuto dell’architettura. Questo tipo di riferimenti rincorrono un processo di rappresentazione per ‘segni’, ma non esprimono più, e non producono più, un senso, con il rischio di trascinare l’architetto a diventare un tecnico dell’apparenza, un inventore di logo, che soddisfa la necessità di rappresentare singole identità, magari anche quando propone una sua nuova opera. Questo tentativo di fondare un nome su una icona (giardino per vecchi o bambini, asilo, scuola, ospedale) e il ruolo di questo simulacro, così facile da comunicare e da consumare, è strumentale ma non funzionale per la vita, la storia e l’anima della città!
In uno scritto di Munari si legge che la necessità del quotidiano sfugge al lavoro intelligente. Henry Laborit ne L’homme et la ville propose un rapporto tra lo sviluppo delle città e il cervello degli uomini che le vivono. Se ne poteva evincere che la città è anche, per ogni cittadino, uno strumento di comunicazione e di prospettazione delle rispettive futuribilità. Era sostanzialmente un’analisi critica del rischio della politica politicante nella Parigi degli anni ’60, quando si sottovalutarono i criteri umanistici e umani dell’intervento nel rapporto uomo-territorio. E il ‘68 non fu risposta esauriente. Modernità e tradizione debbono essere anima e storia del processo di costruzione della città, a condizione di conservare una visione progettuale. Quando Renzo Piano costruisce un grattacielo alto trecento metri a Londra, che sarà ragionevolmente agito da cinque-seimila persone, calcola quarantatre posti macchina perché il progetto prevede anche un’efficiente mobilità alternativa, o la non necessità di mobilità. La struttura sempre più è legata alla comunicazione e il linguaggio della comunicazione cambia la città come cambia il rapporto tra gli uomini.
Il rischio che la gestione delle città fabbrichi piccoli mondi operativi chiusi impone l’obbligo morale di progettare sistemi efficaci di aperture. In un articolo sull’argomento Ridolfi dice che essa è una condizione che tende a fabbricare piccoli gruppi di riferimento per i quali si pone l’urgenza, per ‘loro’ di aprirsi, e per gli ‘altri’ di dialogare. Non si deve correre il rischio di non dare rappresentanza e confronto alle idee che si svolgono su questi argomenti, perché c’è un processo culturale che è cambiato e bisogna assumerne consapevolezza.
Se le periferie sono soltanto la costruzione di belle case, si può correre il rischio che il circuito comunicativo possa sfumare e languire se manca una offerta di società. Non basta solo parlarne, bisogna concordemente sforzarsi per costruirla. Il che vuol dire che si può incappare nell’errore della prevalenza della ricerca di consenso, a rischio della carenza degli strumenti di dialogo e comunicazione. Questi non possono essere sostituiti dagli uffici, ma da un senso diffuso di reale partecipazione. I gruppi dirigenti non possono correre il rischio di assumere posizioni dominanti, che limitano il confronto e la utilizzazione di progetti, magari di valore, ma valutati come estranei e questo non accade quando la gestione urbanistica della città e la politica istituzionale sono capaci di una positiva ed intelligente integrazione. Sense and Design devono diventare idee per una lettura fenomenologica del progetto di sviluppo della città. La eco-edilizia insomma deve ragionevolmente porsi il compito di come usare le nuove e moderne tecnologie ambientali, per rinnovare soprattutto gli edifici pubblici, ovviamente non quelli storici: è essenziale che questo non accada solo nelle strutture, ma anche nelle teste.
Passeggiando attualmente per le aree periferiche della città, capita di riflettere qualche volta sull’uso riduttivo che si può fare dell’idea di spazio, se ci si dimentica della fenomenologia percettiva dello spazio stesso, del contesto visivo che si offre e di come lo si sta disegnando per progettarci dentro nuove strutture.
Insomma da vecchio neurologo propongo un processo di costruzione mentale dello spazio urbano, prima di diventare costruttori di case; cioè di confrontare pareri non secondo la logica, per lo più in uso, delle opinioni contrapposte, ma secondo quelle dell’ascolto e del raziocinio, che è sempre libero, per caratteristica interna dello stesso termine, dalla domanda “ma questi a che tribù appartengono?” Credo che ci siano idee, volontà, possibilità, serietà e impegno in circolazione. Non è proprio il momento di sprecarli.
James Joyce organizzò Ulisse assegnando le varie forme urbane, mura, strade, edifici pubblici e ‘media’ ai diversi organi fisici. Questo parallelo tra la città e il corpo gli permise di stabilire un secondo parallelo tra l’antica Itaca e la moderna Dublino e di creare un senso profondo dell’unità umana al di là della storia. Dice Marshall McLuan che l’uomo alfabeta ha accettato una teoria analitica di frammentazione e non è certo vicino ai modelli cosmici come l’uomo tribale, per il quale gli spazi (tenda, capanna, igloo, grotta) non erano ‘chiusi’ nel senso visivo, ma seguivano linee di forza dinamiche che erano racchiuse nelle forme.
Dal 1970 una legge ponte regolamenta la costruzione dei parcheggi nelle strutture urbane. In Italia si stabilisce che, rispetto alle abitazioni, il numero dei posti di parcheggio non deve essere meno di… In Europa si precisa che si possono costruire fino a…
Chi li vuole allora i parcheggi? Il privato che lo costruisce e ci guadagna addirittura a termine di legge e magari chi fabbrica e vende automobili?
Il 30% della popolazione richiede un tipo di casa e il 70% un tipo di casa diversa. Come si mettono dentro un progetto nella vostra testa di architetti questi elementi se non c’è una visione generale?
È utile un confronto di opinioni che per argomenti globali e futuribili come questi, non riportino costantemente soltanto criteri di appartenenza.
Ci si può perdere nell’immediato e diventa difficile pensare al futuro quando si deve rispondere alle richieste delle varie componenti, che alla fine giudicano, anche mediante il meccanismo del voto e delle possibilità di influenzamento.
Chi progetta, chi costruisce, chi programma, si chiede costantemente dove sta andando tra varie lobbies e il problema dell’oggetto tecnico la cui costruzione è in ogni caso da concludere. Come si coniugano nell’agire le regole cogenti con l’invenzione?
L’identità popolare radicata nei quartieri e quella aristocratica dei palazzi ne potrebbero trarre vantaggio in una storia possibile che progetta, cambia, e si fa futuro, costruendo il nuovo, forte anche delle proprie radici.
[english]
Can we come up with a theory of the city today, accepted by most which goes beyond the practical and conceptually useless meaning of growth machine? Between humanistic and philosophical Marxism and American political economy, to put it in the riskiest, most approximate way, but to make it clear, the houses and places of existence, meeting and exchange, regulations and handling abuse, the organization of life and space for art…what were they, what are they, what will they become? I think we have to consider a number of factors which it is difficult even to list, but with which we do have to work.
In the first place, man’s brain is an ontological internal organ and in studying it (from the neurone to behavioural structures), even we who work in this business forget or perhaps we neglect the fact that if the brain thinks, it is ours, but if it is under the microscope (including tomography and functional resonances) it is that of man, to put it like this, other.
In the second place, we are not dealing only with a simple holistic thought, which we can only rely on a little, but the evolution of the four bases of DNA, we shouldn’t forget, because perché adenine, cytosine, guanine, timida have produced variable sequences and the possible biological future of the inhabitants of this planet. Finally, the updating of the self and of the self in the world, which concerns millions of men, who are altering behaviour and life models in relation to the past and to the future. Made of history which is a synthesis.
Low-energy cost transport and communication at a distance, as well as the presence in the city of increasingly larger populations of non-residents, open up the problem of identity-creating inflation, which can reduce the city-dweller to essential communicator. We have arrived hopelessly at the digital city with the difficulties of bringing inside, immediately the use of imagination and thought.
It is the Utopia of progress and the city humanely expected.
We are tempted to rethink and reflect also upon the old style, to go back to the important Roman convention which brought together, as in fact we are doing here, opinions, using them, the language and dimension of history which perhaps the Eternal City imposed by law.
Françoise Choay, who Gillo Dorfles defined, when presenting the paper she had sent, as one of the best in the urbanistic metropolitan culture because of her courses at the Sorbonne, her books, her anthologies on town-planning, entitled her own contribution for the Roman meeting Segni e segnali della città moderna Dal nome della città all’immagine della non città. This scholar of modern town-planning has referred to strategies able to improve the yield and thus the life of those who are inside, that ‘technical object called city’ also in reference to Rome.
At the present moment there are urban marketing issues in which architects, economists, designers and communication experts play an important role. None of these qualifications is mine but it is impossible not to note that words like city, identity, image are used always and in these words I find myself involved to a certain extent. Choay recalls that these are polysemic words preferred by politicians and technocrats, used above all to reassure themselves. In actual fact they recall important issues like sociology, abused but in certain ways still occult, because albeit not strictly of a technical nature they are imposed by constructive techniques. They concern problems of society when he proposes a new work. This attempt to found a name on an icon (garden for old people or children, nursery, school, hospital) and the role of this simulacrum, so easy to communicate and consume iswhich go back to a basic anthropology, which is fundamental. Currently there are network infrastructures which have the statute of technical artefacts and they concern in the same way ancient cities and ancient countryside disaggregating the one and the other. Choay says that the word is ambiguous because, in that it is discrete space, the city has been transformed and in its place there are uncertain and unstable configurations, which are no longer sustained by a logic of articulation linked to history and the territory but obey a logic of right position of technical objects. We usually say with Melvin Webber that we have a ‘post-city age’ to display this divorce between urbs and civitas. In the traditional city these two identities (urbs and civitas) were united and gave the urban institution its anthropological statute.
De Chirico said one day that “there will come a time, before long, in which cities will be recognised as we recognise two twins, according to some particular sign: St Peter’s will distinguish Rome from Milan, The Vesuvius, Naples from Turin”. This assimilation of a fragment, so unimaginable visually to an urban totality is a bad privilege conferred on historical monuments, because it is a good idea to match the symbolic identity of the city with a new statute for architecture. This type of reference concerns a process of representation by ‘signs’ but it no longer expresses, and no longer produces a sense, with the risk of forcing the architect to become a technician of appearance, an inventor of logic, who satisfies the need to represent single identities, perhaps also instrumental but functional for the life, history and the soul of the city!
In an essay by Munari we read that the need for the daily eludes intelligent work. Henry Laborit in L’homme et la ville suggests a link between the development of the city and the brain of men who inhabit it. We might have inferred that the city is also. For every city-dweller an instrument of communication and ‘prospectation’ of respective feasibilities. It was basically a critical analysis of the risk of politics in the Paris of the 1960s when the humanistic and human criteria of the intervention in the man-territory rapport were underestimated. And ’68 was not an exhaustive response. Modernity and tradition have to be soul and history of the process of construction of the city, if we preserve a project vision. When Renzo Piano builds a skyscraper three hundred metres high in London, which will reasonably be accessible to fivesix thousand people, we imagine forty three parking spaces because the project also envisages an efficient alternative mobility, or the non-necessity for mobility. The structure increasingly linked to communication and the language of communication changes the city as it changes the rapport between men.
The risk that the handling of the city produces small closed operative worlds imposes the moral obligation to project systems capable of opening. In an article on this issue Ridolfi says that it is a condition which tends to produce small groups of reference for which urgency is asked for ‘them’ to open up, and for ‘others’ to dialogue. We must not run the risk of not giving representation and comparison to the ideas which are expressed on these arguments, because there is a cultural process which has changed and we need to be aware of it. If the suburbs are only the construction of nice houses, we might run the risk that the comunicative circuit might fade away and languish if the demand of society is missing.
It is not enough to simply to speak about it, we need to agree on making an effort to build it. This means that we might make the mistake of the prevalency of searching for consensus, risking a lack of dialogue and communication instruments. These cannot be replaced by offices, but by a widespread sense of real participation. The establishment cannot run the risk of assuming dominant positions which limit the comparison and the utilization of projects, perhaps of value, but valued as extraneous and this does not happen when town-planning handling of the city and institutional policies are capable of a positive and intelligent integration.
Sense and Design have to become ideas for a phenomenological reading of the project of development of a city. Eco-building has to give itself the task of knowing how to use the new, modern environmental technologies, to renew above all public buildings, obviously not the historical ones – it is essential that this does not happen only in the structures but also in people’s heads.
Walking through the outskirts of the city it happens that you reflect sometimes upon the reductive use one can make of the idea of space, if you forget perceptive phenomenology of the space itself, the visual context which is offered and how it s being designed to protect us inside new structures. In short as an old neurologist I propose a process of mental construction of urban space, before becoming house builders. I.e., comparing opinions not according to the logic in use, of opposed opinions, but according to those of listening and reasoning, which is always free, according to the internal feature of the term itself, the demand “but these, which tribe do they belong to?”
I think there are ideas, willingness, possibilities, seriousness and committment in circulation. It is not the time to waste them.
James Joyce organized Ulysses assigning the different urban forms, walls, streets, public buildings and ‘media’ to different physical organs. This parallel between city and body allowed him to establish a second parallel between the ancient Ithaca and modern Dublin and to create a deep sense of human unity beyond history.
Marshall McLuan says that alphabetical man accepted an analytical theory of fragmentation and he is certainly not close to cosmic models like tribal man, for whom spaces (tent, hut, igloo, cave) were not ‘closet’ in the visual sense but followed dynamic force lines which were closed within forms.
Since 1970 a bridging law has been regulating the construction of carparks in urban structures. In Italy it has been established that, with respect to dwellings, the numbers of parking places must not be fewer than…In Europe the rule is that we canonly build up to… So who is it who wants carparks? The private individual who builds them and earns from it by law even and perhaps those who manufacture and sell cars……. 30% of the population requests a type of house and 70% a different type of house. How do you put into a project your head architects head these elements if not with a general vision? A comparison of opinions is useful for global and feasible issues which, like these, do not constantly recall only criteria of belonging.
We can lose ourselves in the immediate and it becomes difficult to think of the future when you have to answer the requests of the different components, which in the end judge, also through the mechanism of the vote and the possibilities of being influenced. Those who project, build, plan ask themselves constantly where the different lobbies are going and the problem of the technical object whose construction is in any case to conclude. How are they to be joined in acting the cogent rules with the invention? Popular identity rooted in areas, and the aristocratic identity could find an advantage in a possibile history which projects, changes and makes a future for itself, building the new, sure, also of its own roots.
(Tratto da/From: NB. I linguaggi della comunicazione, Cartografie, N. 0, Anno I, Ottobre 2009 – Gennaio 2010)