Forma mentis
Appunti sulla forma e sul diritto universale di esistere
Un’entità tanto immediata ai nostri sensi quanto difficile da circoscrivere in poche parole, la forma è forse il mondo che riusciamo a immaginare. Un’idea che si fa presenza, una forma mentis appunto, l’idea che prende forma.
Proprio per la sua natura mutevole e scivolosa, oltre che per ragioni di spazio, in queste pagine sarà preso in considerazione un contesto di applicazione specifico, quello urbano, in quanto più di altri ambiti è in grado di svelarne, non solo la funzione ma, soprattutto, il suo senso più profondo, ciò che dice di noi e del nostro modo di stare al mondo. Ma cosa si intende quando si parla di forme di abitare o di forma urbana? Si possono considerare dei linguaggi universalmente validi? Siamo sempre in grado di scegliere il nostro modo di abitare? Una forma può farsi ideologia?
Per rispondere a questi interrogativi è necessario fare un passo indietro e ripercorrere brevemente alcuni momenti storici fondamentali.
Fino al XIX secolo, quando sorsero gli studi di Stübben (1890) e Sitte (1898) non esisteva una chiara associazione tra architettura dell’edificio e il piano allargato della città. La manipolazione e l’uso dello spazio erano, quindi, una risposta più o meno diretta alle necessità, pratiche e significati degli abitanti. In questo contesto, la forma di un insediamento abitativo – forma urbis – può essere considerata come una costruzione culturale, una mappa mentale condivisa che solo gli abitanti riescono a leggere.
Con la nascita dell’urbanistica moderna per la prima volta si costruirono dalla radice intere città o parti di questa, con il proposito di accompagnare e gestire le trasformazioni della nuova epoca trasformando, inoltre, il ruolo dell’architettura (e dell’architetto) in relazione alla società. Il positivismo inerente al Movimento Moderno portò a varie esperienze e correnti che cercavano di instaurare nuove logiche, nuovi modelli sociali e, soprattutto, un nuovo ruolo per l’architettura che, a partire da questo momento, diventerà veicolo principale di trasmissione dei nuovi valori alla società. In altre parole, si considerava l’architettura (e l’urbanistica in generale) come un linguaggio fisico capace di influenzare le persone nei gusti, nell’etica e nei comportamenti, per questo motivo doveva farsi promotrice del “buon comportamento”. Per la prima volta, si assiste a progetti per la costruzione di intere città come La Ville Radieuse di Le Corbusier (1930) e all’introduzione di nuovi concetti di abitare come l’Unité d’Habitation, dove, sempre privilegiando la funzionalità, l’estetica e la salubrità, si cerca di portare al limite minimalista gli spazi abitativi.
Questa nuova concezione dell’architettura, e delle forme abitative in generale, implica un altro tipo di sguardo: non solo l’architettura e le forme urbane sono un prodotto della società ma, a partire da questo momento, diventano anche uno strumento per modificarla, per incidere su di essa e, l’architetto, nelle parole dell’antropologo La Cecla (1993) un “educatore” della società. Una visione che si rifletterà in tantissimi esperimenti e modelli che a partire da questo momento si propagheranno in Europa e nel mondo.
Un altro concetto fondamentale a supporto di questa teoria è quello di unità di vicinanza, sorto con la scuola americana di sociologia a inizio XX secolo e sviluppato in particolare da Park (1925) Cooley (1913), Woods (1913) e Ward (1915), affonda le sue radici nella constatazione di un indebolimento dei legami sociali nelle città industriali relazionati alla crescita esponenziale delle stesse. L’unità di vicinanza è dunque l’area dentro la quale si instaurano i legami più stretti tra le persone (ci si conosce personalmente, si scambiano servizi e beni ecc.), permette lo sviluppo di reti sociali solide, spontanee o organizzate.
Questi due concetti rappresentano le basi sulle quali si sono costruite diverse esperienze nel mondo, tra le quali ricordiamo le più celebri come Sunnyside Gardens e Radburn di Henry Wright e Clarence Stein, le Superquadras a Brasilia, i Dom Komplex sovietici, Alton Estate in Inghilterra o Lake Meadows a Chicago.
Nonostante la validità teorica di questi modelli, la realtà dei fatti è che questi concetti, nati con il proposito di regolarizzare, dar vita a nuove comunità dove non esistevano o, più in generale, creare migliori condizioni di vita per chi viveva nei sobborghi affollati e precari delle grandi città, non hanno avuto l’effetto sperato. Le migliori intenzioni messe in atto da studiosi e architetti si sono rivelate presto un’utopia o non sono state sufficienti a creare la nuova “città ideale”, un modello universale che potesse mettere fine al degrado abitativo in continuo aumento soprattutto nei centri industrializzati. Ma proviamo ad entrare un po’ più nel dettaglio con qualche esempio.
Il principio e la fine: due esempi.
Il progetto del Karl Marx Hof (Vienna, 1926-30) è certamente il più emblematico e conosciuto, oltre a costituire il primo esempio, in Europa, di architettura in grande scala: un edificio lungo più di un chilometro, 1382 appartamenti e circa 5000 abitanti. Un caso interessantissimo di residenze economiche pubbliche o social housing che contribuirà parecchio negli anni successivi a rafforzare il mito dell’abitare in comunità. Ad oggi, certamente uno degli esempi più riusciti nel suo genere e che gli è valso il nome di “montagna incantata” o “Versailles del popolo” agli occhi dell’osservatore esterno. Lo stesso tipo di progetto però non ha avuto la stessa fortuna quando riprodotto in altre parti del mondo, citiamo ad esempio Corviale a Roma che ripropone le stesse dimensioni e la stessa organizzazione interna. Ciò che cambia radicalmente nei due casi è il contesto storico-sociale in cui si inserisce l’opera e quindi la sua capacità di essere significativa per una data comunità. Il Karl Marx Hof funziona perché rappresenta il risultato della lotta di migliaia di operai per migliorare la loro condizione sociale, un accordo con il governo che li vedrà coinvolti direttamente in questo grande progetto. Ultimo baluardo della resistenza contro gli austro-fascisti (1934), il Karl Marx Hof dovette essere bombardato per conquistare Vienna. Un monumento, un mito che nemmeno il tempo riesce ad affievolire, oggi meta ricercata anche dai turisti.
Se il Karl Marx Hof rappresenta il principio di questa avventura, il progetto di Pruitt-Igoe a Saint Louis, Missouri (1955) ne è certamente la fine. Costruito secondo i criteri elaborati dal CIAM e vincitore nel 1952 del premio attribuito dall’Istituto Americano di Architettura (Jenks, 1977), il progetto di Pruitt-Igoe è costituito da una serie di blocchi paralleli, formati da quattordici piani e organizzati al loro interno da: appartamenti, percorsi pedonali di accesso agli stessi, servizi comuni e locali di convivio. Anche la scelta formale degli edifici segue i principi individuati dalla tradizione razionalista: forme pure, linee semplici e geometriche, pianificazione intelligente dello spazio. La buona forma che, parafrasando il famoso storico dell’architettura Jenks (1977), dovrebbe riflettere o, almeno, promuovere il “buon comportamento”. Il progetto, di iniziativa pubblica e destinato agli strati popolari più in difficoltà, appena qualche anno dopo la sua costruzione, si trovava in una situazione di povertà estrema, soggetto a vandalizzazioni costanti e rifugio per attività criminali (Jenks, 1977). Tutti gli investimenti pubblici in manutenzione, per tentare di mantenere il decoro degli edifici, non si sono rivelati sufficienti, per questo il 15 luglio 1972, Pruitt-Igoe è stato demolito. La dimensione del suo fallimento divenne presto un caso mondiale aprendo la discussione sulle politiche urbane, in particolare a proposito delle residenze economiche pubbliche e mettendo in discussione le ragioni del Movimento Moderno, al punto che questo evento sarà ricordato dallo storico, come il giorno in cui è morta l’architettura moderna.
Abbiamo citato due casi tra i più conosciuti, ma potremmo ricordare ancora il progetto di Marine Baie des Anges di Villeneuve-llubet (Patrimonio architettonico del XXI secolo) che ha ispirato il progetto di edilizia popolare “Le Vele” di Scampia a Napoli o ancora il piccolo borgo “Troia, Città Giardino” sorto per rispondere alle esigenze della nuova classe media portoghese, sulla penisola di Troia, a sud di Lisbona e il quartiere di edilizia popolare Zona J nella stessa Lisbona. Quest’ultimo, realizzato su modello del primo, è passato alla storia come “Villa Miseria”, al punto che dal 2001 si decise, oltre che ad abbattere parte degli edifici, di cambiare il nome al quartiere (passando da “Zona J” a “Bairro do Condado”) perché ormai troppo stigmatizzante per i suoi abitanti.
Questi esempi mostrano come sia difficile pensare a modelli universalmente validi ma, soprattutto, che pur mossi dalle migliori intenzioni e da valide teorie, si può finire facilmente vittime di ideologie e attivare meccanismi di coercizione. Non tanto errori di forma, quanto di metodo.
A questo punto è utile definire meglio i legami che intercorrono tra linguaggio, forma e ideologia.
Forma e ideologia Vs forma e identità.
“A partire dal momento in cui si sta nella società, qualunque uso si converte in segno di quell’uso” (Roland Barthes, 1975:9)
In linea generale, quando si parla di linguaggio, tendenzialmente consideriamo il linguaggio verbale, scritto, i segni e il comportamento che, sebbene utilizzino sistemi di sintesi diversi, hanno la funzione di comunicare contenuti, significati e valori. Quando si tratta di altre costruzioni o prodotti umani, come nel caso degli oggetti di consumo, dell’architettura e della produzione dell’ambiente in generale, non siamo tanto abituati a considerarli come tali, ossia, linguaggi, sistemi di comunicazione, per norma prevale l’associazione alla funzione che esercita.
Questo aspetto è molto ben argomentato da Umberto Eco (1968), l’autore sostiene infatti che “una considerazione fenomenologica della nostra relazione con l’oggetto architettonico ci dice, prima di tutto, che comunemente fruiamo l’architettura come un fatto di comunicazione senza, tuttavia, escludergli la funzionalità” (Eco, 1968).
Le possibilità comunicative, quindi, sono diverse: da un lato, abbiamo una dimensione meramente denotativa, la prima funzione dell’edificio è quella di riparo, essere abitato, dall’altro lato, abbiamo una dimensione connotativa che risulta da un modo specifico di dare forma all’abitazione, ad esempio la disposizione e organizzazione delle funzioni, la scelta formale degli spazi, non rappresentano solo una funzione, essi portano con sé significati strettamente legati a specifiche concezioni di abitare, trasmettono l’ideologia globale che ha presieduto l’operazione dell’architetto” (Eco, 1968). È il modo di concepire la funzione. In questo senso, la funzione corrisponde alla parte denotativa dell’oggetto (risponde alla domanda “che cosa?”) mentre la forma che assumerà corrisponde alla dimensione connotativa (risponde alla domanda “come?”) ed è esattamente questo secondo aspetto la parte critica, dove si può insinuare la dimensione ideologica o mitologica di un progetto o qualunque altro artefatto, nelle parole di Roland Barthes (1957): “il mito non può essere in nessun modo un oggetto, un concetto o un’idea; é un modo di significazione, una forma” (Barthes, 1957:11).
Sintetizzando, l’ideologia non sta nelle cose, persone o istituzioni in sé, ma queste la rendono visibile. Di fatto, esistono diversi modi di concepire e realizzare un prodotto qualunque e questi modi sono sempre influenzati da valori, principi, concezioni del mondo che sono circostanziati, anche nello spazio e nel tempo.
La dimensione ideologica che può assumere la forma risiede quindi nel tentativo di egemonizzare secondo i canoni prestabiliti del gruppo dominante. Ha carattere coercitivo e moralista volendo in qualche modo promuovere un certo modo di esistere a discapito di altri.
La forma intesa come libera rappresentazione dei valori e delle concezioni del mondo rimane la testimonianza più pura delle nostre vite, di culture individuali e collettive. Ogni individuo, gruppo, società o popolo ha necessità di essere riconosciuto ed è a questo che serve la forma, a renderci visibili.
Considerazioni finali.
Il tema è certamente vasto e meriterebbe maggiori approfondimenti, tuttavia senza la pretesa di essere esaustivi, tornando alle questioni iniziali e alla luce di quanto analizzato fino a qui, possiamo affermare che la forma è molto di più di quello che appare all’immediatezza dei sensi, troppo importante per essere declassata a mero ornamento, proprio per questo è difficile pensarla come un linguaggio universale. Ciò che invece si può considerare universale è l’importanza che qualunque popolo, gruppo sociale e individuo attribuisce alla forma, all’habitat, in quanto costruzione simbolica del proprio ambiente. La forma riveste un ruolo importante perché rappresentazione fisica del nostro modo di stare al mondo e di essere riconosciuti. A questo proposito si è fatta distinzione tra rappresentazione identitaria (da intendersi come libertà di scelta, di stare al mondo) e l’imposizione dall’alto, la coercizione. La potenza comunicativa dell’arte e dell’architettura è storicamente riconosciuta, spesso, infatti, sono state messe al servizio del potere dominante con il fine di promuovere questa o quella ideologia. Ma se consideriamo vero quanto sostenuto da Dorfles (2010) che “la libertà di scelta è la dimensione più vitale dell’essere umano”, allora sarebbe certamente più efficace pensare a un modo per far sì che queste scelte diventino realtà per tutti. Diventa quindi indispensabile investire in politiche pubbliche in grado di fornire possibilità e meno nella politica del prêt-à-porter.
Riferimenti bibliografici
Barthes, R. (1957). Mitologias. Versione tradotta da José Augusto Seabra. Lisboa: Edições 70, 1975.
Dorfles, G. (2010). Dal significato alle scelte. Roma: Castelvecchi.
Eco, U. (1968). La struttura assente. Milano: Editrice La Nave di Teseo.
Jenks, C. (1977), “A Linguagem da Arquitetura Pós-Moderna” in Teoria e critica de arquitetura – século xx, Caleidoscópio, Casal de Cambra: 2010.
La Cecla F., (1993). Mente Locale. Per un’antropologia dell’abitare. Milano, Elèuthera.