Abitare la città

“Abitare la città” è uno slogan piuttosto generico che cercherò di spiegare ripercorrendo il mio percorso artistico. Innanzitutto, una breve premessa storica: le mie prime riflessioni in merito risalgono all’inizio degli anni Sessanta, quando ancora il rapporto individuo-ambiente era indagato in Italia da pochi artisti e architetti (quelli che poi sarebbero stati definiti “architetti radicali”), nonostante questa relazione cominciasse a risvegliare un qualche interesse nel resto dell’Europa (penso agli inglesi Street Farmer, alla Cooperativa Himmelblau, oppure al gruppo HausRuker di Vienna). 

Tuttavia, nel nostro paese come all’estero, questo tema rimaneva sicuramente marginale rispetto alla cultura ufficiale. In quegli anni Milano era governata dalla corrente progettuale che faceva riferimento al pensiero di Ernesto N. Rogers e dalla corrente Neoliberty rappresentata dapprima dai contributi di Vittorio Gregotti e poi di Aldo Rossi. 

Quindi potete facilmente immaginare le difficoltà per un giovane architetto che muoveva i primi passi a Milano, in un contesto culturale che non apprezzava le nuove teorie su un diverso uso dell’architettura in rapporto all’abitare urbano. Malgrado ciò, verso la fine degli anni Settanta, accadde qualcosa che in qualche modo modificò gli equlibri tra la cultura ufficiale e questa attività “radicale” e sotterranea. Molti ricorderanno che, proprio in quegli anni, nelle facoltà universitarie fece la sua comparsa una nuova disciplina denominata “arredo urbano”: l’equivalente, per gli spazi esterni, di quella disciplina che Gio Ponti aveva già promosso negli anni Cinquanta con l’introduzione della materia “architettura degli interni”, anche chiamata più volgarmente “arredo domestico”. Alcuni di noi cominciarono a pensare che le cose stessero effettivamente cambiando, che la società fosse maturata (nascevano i primi assessorati all’arredo urbano…) e che anche le università stessero prendendo coscienza che il vero fine dell’architettura dovesse essre quello di migliorare l’abitabilità e di promuovere la qualità della vita dell’individuo urbanizzato. 

Anch’io caddi in questa trappola e fui chiamato in diverse facoltà di architettura a tenere corsi di arredo urbano. In realtà, mi ritrovai all’interno di dipartimenti accademici che si aspettavano – anziché l’insegnamento di pratiche in grado di favorire la riappropriazione degli spazi urbani da parte della cittadinanza – la progettazione di “arredo stradale” (street furniture, in inglese), ovvero di panchine, dissuasori di sosta, portarifiuti, lampioni, etc. 

Introdotto nelle facoltà di architettura, quest’approccio creò soltanto un certo disturbo; un disturbo di cui il mondo accademico ha spesso avuto bisogno per nascondere il disimpegno nei confronti di ciò che accadeva realmente sul territorio. Dal dopoguerra ad oggi, le facoltà di architettura distribuite su tutto il territorio nazionale, di fatto, non hanno mai alzato un dito di fronte al grande scempio perpetrato sul nostro territorio e di cui tutti noi siamo stati spettatori. Mai una voce che denunciasse la diretta responsabilità dell’architettura e dell’edilizia! All’interno di queste istituzioni che potrebbero avere un ruolo di verifica e di denuncia – in quanto libere da condizionamenti politici ed economici – non è mai cresciuto un movimento interno capace di intervenire per porre un freno ai disastri che si stavano compiendo. 

L’arredo urbano ha rappresentato un elemento di distrazione e ha risvegliato grande euforia tra i designer che, con l’arrivo dei grandi numeri (forniture per intere città), vedevano finalmente aprirsi una nuova stagione per il disegno industriale. In realtà si è trattato invece di decenni di decadenza: purtroppo, negli anni Ottanta e Novanta, la questione dell’ambiente urbano si è risolta, nelle migliori delle ipotesi, nella “fornitura stradale”. Negli ultimi anni è emersa un’attenzione differente verso l’ambiente urbano espressa principalmente dai nuovi “graffitari”, artisti che oggi sembrano aver esaurito la loro funzione, ormai celebrati dai musei di arte contemporanea. Dal mio punto di vista, abitare la città è un tema che rimane sostanzialmente scoperto, almeno rispetto agli strumenti e alle pratiche che ho sperimentato per molti anni. 

Tra “abitare” e “usare” lo spazio urbano c’è una grandissima differenza: si “abita” lo spazio della propria abitazione domestica, si “usa” lo spazio della camera d’albergo. Abitare significa espandere la propria personalità, appropriarsi dei luoghi e, in qualche modo, intrattenere con essi un rapporto soprattutto di tipo mentale. Proprio come facevano i pellerossa: abitavano il loro territorio senza modificarlo, attribuendo valore e significato ad ogni elemento (montagne, fiumi, alberi…). Per esempio, facevano dei fori sotto i mocassini dei propri figli affinché toccassero, con la pianta dei piedi, la terra: la polvere delle ossa dei loro antenati. 

 

fig. 1, 2: Mappe

Per avvicinare le persone a questo modo di vivere lo spazio urbano si possono attivare diverse pratiche. Tra gli esercizi che proponevo negli anni Sessanta e Settanta, c’era quello di tracciare la “mappa della propria città” (fig. 1, 2) secondo le seguenti modalità: “Prendete la pianta della vostra città (la mappa codificata che potete comprare dal giornalaio), sovrapponete a questa un foglio di carta da lucido delle stesse dimensioni e disegnate sopra i luoghi dove avete ricevuto delle informazioni. Otterrete la mappa delle “vostre informazioni”. Allo stesso modo, potrete realizzare (con altri fogli di carta trasparente sovrapposti alla mappa codificata): la mappa dei vostri monumenti (oggetti e segni che avete utilizzato per orientarvi), la mappa dei vostri itinerari, la mappa dei vostri eventi emozionali, e così via…Tutte queste mappe da voi elaborate raccolgono le differenti letture del vostro rapporto con la città”. Dopo aver richiesto a circa cinquecento persone di compiere questo esercizio, ho realizzato nel 1979 una mostra alla Triennale di Milano: esponendo a confronto queste mappe, era subito visibile che esistevano tante città quante le persone che abitavano la città stessa. Un altro esercizio era Le chemin du dérive dovevo proponevo un percorso a piedi dal centro della città alla periferia, senza una particolare destinazione e senza un itinerario prestabilito. I protagonisti di questo camminamento percepivano una quantità di informazioni che non avrebbero mai potuto rilevare in altre situazioni di comportamento urbano. Ad esempio, al termine di una giornata passata a camminare attraverso la città, si accorgevano che quest’ultima non offriva la minima possibilità di sopravvivenza, perché per sopravvivere in uno spazio per dodici ore ci sono tre cose che bisogna assolutamente fare: bere, evacuare, riposare. Ebbene, nelle nostre città, queste tre necessità non sono soddisfatte da nessuna struttura a disposizione dell’individuo urbanizzato. E stiamo parlando di usare la città, siamo ancora ben lontani dall’abitarla. 

                                                             fig. 3: Il commutatore, 1970.

Per abitare la città, direi più a livello psicologico e comportamentale, mi è parso indispensabile sviluppare un insieme di operazioni che conducono alla decodificazione di situazioni e luoghi, ovvero alla lettura – e quindi al disvelamento – di realtà che non sappiamo percepire perché ormai acquisite o imposte. Strumenti atti a rompere gli schemi della consuetudine, come il Commutatore (fig. 3): un piano inclinato su cui collocarsi e, modificandone l’angolazione, poter guardare in modo diverso la realtà circostante. Tra le altre operazioni teorizzate con il manifesto Sistema disequlibrante, l’opera Elemento Segnale. Alla periferia di Milano, tra Bresso e Cinisello Balsamo, si estendeva una grandissima area tutta recintata e assolutamente inutilizzata, priva perfino di verde. Passavo quotidianamente da quel posto, fiancheggiandone la recinzione, per andare ad insegnare a Monza e notavo che, progressivamente, cresceva tutt’intorno una architettura residenziale “in attesa” che questo grande spazio venisse utilizzato, si trasformasse. Ma non succedeva nulla. Alla fine pensai di scaricare tutta questa tensione accumulata negli anni collocando in quest’area un “segnale” (fig. 4, Intervento per nuove strutture ambientali): un cartello che invece di scaricare le tensioni ne accumulava provocatoriamente delle altre! 

fig. 4: Il segnale, 1970.

Finora ho descritto interventi a carattere psicologico e mentale, ma ci sono tante operazioni di carattere più progettuale che attendono di essere affrontate. Tutti sanno che la città, per quanto riguarda i rapporti individuo-ambiente, è composta da tanti sottosistemi: il sistema dei flussi, il sistema ludico, il sistema culturale, il sistema informativo, il sistema commerciale, etc. Ma per ciascuno di questi caratteri urbani manca la progettualità. Prendiamo, ad esempio, il vecchio tema dell’isola pedonale (uno dei tanti argomenti che riguarda il sistema dei flussi): ebbene è un elemento che in Italia non è mai stato affrontato dal punto di vista progettuale.

                                                      fig. 6: Campo urbano, 1968.

Quando nel ’68 ci furono le prime isole pedonali, realizzai un intervento disequilibrante – in qualche modo metaprogettuale – che intitolai Campo urbano (figg. 6, 7), ideato a Como, in occasione di una delle prime mostre dedicate all’arte nella città. Il curatore Luciano Cara- mel aveva chiesto a me come ad altri artisti (Munari, Chiari, Bay Fabro, il Gruppo T e tanti altri) di uscire dal sistema delle gallerie d’arte per andare incontro alla città e ai suoi abitanti. Decisi così di intervenire attraverso un’installazione effimera (durata solo una giornata) in cui davo rappresentazione diretta di un fatto:

                                                      fig. 7: Campo urbano, 1968.

una volta liberata dal traffico, l’isola pedonale viene subito parassitata e occupata dal sistema commerciale. I negozianti si apprestavano a moquettare la via, a collocare vasi e invadere con le loro merci lo spazio reso disponibile. Lo spazio liberato dal traffico non veniva riconvertito, ripensato, riprogettato; ma lasciato a se stesso. Ecco, allora, il mio intervento fotografato mirabilmente da Ugo Mulas: la creazione di uno spazio autonomo rispetto al marciapiede, ad uso del sistema commerciale. E tutto ciò per dimostrare la possibilità di intervenire negli spazi liberati dal traffico. 

A questo intervento se ne aggiunsero altri più mirati a dimostrare la disponibilità di spazi non usati, dimenticati ed emarginati a causa di una cattiva gestione dei luoghi. Sempre appartenente alla serie disequilibrante – ma centrato sul sistema dell’informazione – è il Cicerone elettronico (fig. 8), un

                          fig. 8: Cicerone elettronico, 1971-72.

progettto ancora tutto da attuare, presentato al MoMA di New York in occasione della mostra del 1972 Italy: the new domestic landscape. Erano tempi in cui si cercava di liberarsi dall’informazione “imposta”. Attraverso un programma audiovisivo proponevo la messa in atto di un flusso di informazione tra spazio privato e spazio pubblico – e viceversa – senza la mediazione di particolari filtri, in modo diretto e autogestito. Un apparecchio che poteva contenere e rinviare i messaggi lasciati dagli abitanti alla città, come anche far ricevere agli abitanti i messaggi lanciati dallo spazio pubblico.

 

 

fig. 9: Videocomunicatore, 1971-72.

 

 

Così come il Videocomunicatore (fig. 9) una sorta di box che poteva essere collocato negli spazi pubblici e collegato agli spazi privati: un contenitore di messaggi che, una volta raccolti e accumulati, potevano essere proiettati su grandi schermi nella città. Sono progetti del secolo scorso, ma penso che sarebbe bello vederli realizzati, prima o poi.

 

 

fig. 10: Verso il centro, 1972.

Verso il centro (fig. 10) rappresenta un ulteriore esempio di progetto disequilibrante. Nel 1974 il Comune di Milano incaricò alcuni architetti e artisti per intervenire durante le feste natalizie nel centro città con opere di abbellimento. Partendo dalla considerazione che in quel periodo dell’anno le persone si muovono dalla periferia verso il centro (pieno di merci e luci!), proposi di portare nel centro tutto ciò che la periferia produceva. Vorrei ricordare che, in quegli anni, la periferia di Milano era estremamente ricca e vivace di movimenti, circoli giovanili, case occupate, centri culturali… Quindi l’intento della mia proposta era di trasformare un’azione centripeta in un’azione centrifuga: riportare l’attenzione della gente verso la periferia della città, anziché soltanto verso il suo centro. Questi sono alcuni progetti che esemplificano il mio atteggiamento nei confronti dello spazio urbano e che dimostrano che il sistema urbano è ancora troppo poco guardato con l’attenzione che meriterebbe per sviluppare un più giusto rapporto tra l’individuo e il suo ambiente di vita. 

 

fig. 11: Vetrine.

Un altro argomento che mi ha appassionato per tanti anni è quello dell’immagine della città. Di fatto, a ben guardare, l’immagine della città è realizzata quasi esclusivamente dalle vetrine dei negozi e dall’esposizione delle merci: tutti noi lo sappiamo, ma pochi sono consapevoli di questa realtà che, effettivamente, modifica continuamente l’immagine che abbiamo della città (fig. 11). Non sono certo gli urbanisti, ma più che altro i negozianti con i loro vetrinisti, coloro che modificano continuamente l’immagine della città. Mi basta pensare al quartiere di Milano in cui abito: nel giro di cinque anni trentacinquemila cinesi hanno trasformato questo luogo in un centro commerciale all’ingrosso (come potrebbe avvenire lungo il porto di Amburgo) dove praticamente tutti gli ambulanti di Europa vengono a rifornirsi. In altre parole, le trasformazioni di carattere commerciale sono determinanti per l’immagine di una città; se in passato il centro di Milano era estremamente vivace, oggi la concentrazione di esercizi costituiti in prevalenza da banche, lascia il turista perso in un centro storico che di notte non possiede più attrattive e vitalità. 

Finora ho affrontato il sistema dei flussi che interessa il sistema ludico, informativo e commerciale; ma esiste un altro sistema poco indagato, che ho chiamato “sistema di decompressione”. Quest’ultimo è costituito da una serie di elementi e di spazi attrezzati la cui finalità ultima è creare momenti di decongestione dall’inquinamento acustico, visivo e atmosferico, come dall’eccesso di folle, di strutture, di mezzi, di percorrenze. Insomma, luoghi e attrezzature per “riprendere fiato”. 

Le cosiddette “vedovelle”, fontanelle che in ogni quartiere un tempo servivano per dissetare il passante, oggi sono tutte scomparse! Un piccolo esempio di come anche le più elementari strutture di servizio per la “decompressione” sono totalmente assenti nelle nostre città (dalle zone di riposo alle strutture per l’evacuazione). Oggi non esistono momenti di sospensione rispetto all’efficienza esasperata delle città: momenti che sarebbe giusto chiamare “smagliature”, ovvero quelle situazioni alternative alle strutture imposte dagli urbanisti, realtà che spesso si ritrovano nelle periferie della città. Sono proprio queste smagliature che mi hanno fatto riflettere e mi hanno spinto, alla fine degli anni Sessanta, a guardare alle periferie urbane con un’attenzione diversa. Le periferie con tutte le loro smagliature (“itinerari preferenziali” rispetto alle maglie tracciate dall’urbanista, “strutture auto- gestite e autocostruite” come gli orti urbani, “recupero dei materiali” in intelligenti reinvenzioni degli scarti della civiltà dei consumi), mi insegnarono molte cose al di là dei luoghi comuni che erroneamente descrivevano – e continuano a descrivere – le periferie come i luoghi del non progetto. 

 

               fig. 12: Attrezzature urbane per la collettività, 1979.

Infine, un argomento su cui mi sono impegnato per tanti anni e su cui ancora rivolgo parte del mio interesse è la definizione di strumenti per la rottura della barriera esistente tra lo spazio pubblico e lo spazio privato. Fin dagli anni Sessanta, tanti miei progetti e azioni anni sono ideati attorno allo slogan “Abitare è essere ovunque a casa propria”, laddove la pratica di abitare va al di là dello spazio privato per invadere anche lo spazio pubblico. Per esprimere in modo evidente e provocatorio questo modello di comportamento ho così intrapreso un percorso progettuale che trasformava in oggetti di arredo domestico le diverse attrezzature che incontravo nella città: oggetti di fornitura stradale, barriere e i cosiddetti arredi urbani (fig. 12). Così, ad esempio, ho rilevato i dissuasori “paletti e catene” estremamente diffusi a Milano e li ho trasformati in oggetti d’arredo domestico (letto, sedia, tavolino, cassettiera). Oppure, ho rilevato le “paline stradali” (usate per sostenere la segnaletica stradale) per trasformarle in oggetti luminosi estremamente affascinanti, con neon e metacrilato dipinto a mano, per poi collocarli in una stazione della metropolitana milanese a denunciare quanto il progetto di quella metro fosse assolutamente anonimo e alienante, lontano dal concetto dell’abitabilità. Un’azione provocatoria, chiamata ironicamente Attrezzature per la collettività per alludere al fatto che, al contrario dell’arredo domestico, l’arredo urbano esprime solo violenza e divisione. Quando invece, se veramente vogliamo avviare il processo di abitabilità urbana, i complementi inseriti nella città dovrebbero essere progettati con lo stesso spirito dell’arredo domestico ed estendere nell’ambiente i caratteri dei cittadini che lo abitano. 

L’arredo urbano di una città come Milano, definita la capitale internazionale del design, dovrebbe essere disegnato per assolvere non solo alle funzioni primarie, ma anche – e soprattutto – per esprimere e comunicare contenuti: elementi che siano autentici oggetti significanti. È deprimente constatare che tutto il grande impegno creativo delle installazioni e degli allestimenti che da diversi decenni invade la città in occasione della grande kermesse del Fuori Salone del Mobile, non lascia nessun “segno” qualificato per lo spazio urbano: proprio come accade in tutte le fiere di paese, finita la festa, non rimane traccia del caleidoscopio di progetti che per qualche giorno hanno ridisegnato l’immagine di Milano. 

Queste riflessioni sicuramente denotano una certa dose di pessimismo e quasi di disperazione, condizioni psicologiche che la città di Milano mi ha sempre provocato.
Ho combattuto queste sensazioni con ottimismo operativo, conducendo piccole e grandi battaglie nella convinzione di poter riuscire – anche in minima parte – a modificare il rapporto tra l’individuo e l’ambiente. Una sfida ben espressa nel film La riappropriazione della città che realizzai nel 1975 per il Centre George Pompidou di Parigi o nel cortometraggio Interventi pubblici per la città di Milano dedicato proprio della riconversione degli oggetti d’arredo urbano in sofisticati oggetti di arredo domestico (fig. 12). Nelle prime sequenze i vincoli (paletti e catene) vengono descritti come “strumenti provvisori per la riqualificazione di molte zone del capoluogo lombardo”. 

Oggi a Milano quei paletti e quelle catene non ci sono più: il sindaco di allora, dopo aver visto il film alla Triennale di Milano nel 1979, li fece togliere e riprogettare da Enzo Mari, pensando che ne avessi criticato l’aspetto estetico. 

Nacquero così i “panettoni”, versione moderna di paletti e catene, ma – come avrete capito – la mia critica era sul significato stesso di simili dispositivi, connotati di violenza ed emarginazione, false promesse di riqualificazione urbana. Spero che il mio pessimismo di oggi possa nei giovani trasformarsi in ottimismo, in urgenza creativa. In desiderio di “abitare” davvero la città. 


Trascrizione dell’omonima relazione tenuta in occasione del Convegno internazionale di studio “La città senza nome. Segni e segnali nel paesaggio contemporaneo” (Villa Romanazzi Carducci – Bari, 22-23 ottobre 2009).