Della grandezza dei sogni
On the greatness of dreams

(tratto da NB. Numero 0, Anno I – ottobre 2009 – gennaio 2010)

 

La casualità delle forme e la necessità dell’immaginazione.
The randomness of formsand the necessity of the imagination

 

Esiste una variabile assai elementare che interviene continuamente nella nostra percezione del mondo: l’estensione fisica degli oggetti.

Se chiamiamo questa variabile, più familiarmente, con la parola “grandezza” non rischiamo troppo. Ma è già abbastanza curioso che la parola italiana scelta, ma questo accade anche in altre lingue, sia “grandezza” e non “piccolezza”. Comunque sia, semplicemente, esistono cose piccole e cose grandi. Quasi nello stesso istante in cui si utilizzano queste parole così comuni, grande e piccolo, ci si rende conto che il loro uso è incerto. L’abitudine a vivere ci insegna immediatamente che alcune cose che appaiono grandi in un contesto, sembrano insignificanti in un altro. E, reciprocamente. Ma non sempre simmetricamente. E questo, anche se le nostre dimensioni corporee non sono mutate tra la prima e la seconda esperienza percettiva con lo stesso oggetto in due diversi contesti. Una serie di condizioni ambientali interviene immediatamente a complicare la questione. Variabili come la distanza, la limitata visibilità, il movimento reciproco, il contrasto luminoso con lo sfondo, il contesto spaziale, la presenza o assenza di un orizzonte riconoscibile come tale, tutto interferisce con il giudizio, che si sarebbe voluto semplice e “puro”. Se, quindi, si tiene conto, e come non si potrebbe?, del resto del mondo le due categorie appaiono confuse e situate in una allarmante continuità o, addirittura, non separabili tra di loro.

In questa fase molto preliminare è opportuno introdurre un secondo livello linguistico senza stabilire il quale finiremmo per creare altri “paradossi di Zenone” che intralcerebbero (faciliterebbero?) il nostro cammino. Questo secondo livello ha a che fare con la differenza tra le cose e le loro rappresentazioni. Cioè tra la caraffa di cristallo sul mio tavolo e una sua “rappresentazione”. Per esempio una fotografia, un dipinto, una incisione, una simulazione in Auto-Cad, un fotogramma, un tumb nail in JPG, che “rappresenta” la caraffa di cristallo. Tutte queste rappresentazioni avranno una caratteristica comune; guardandole, vi riconosceremmo la caraffa. Tito Lucrezio Caro sarebbe soddisfatto di questo. Più di duemila anni dopo utilizziamo un concetto che è alla base del suo “De Rerum Natura”: l’idea di “eidola”. Un “eidolon” è una sorta di copia di un oggetto, copia conforme all’originale che, forse, ne condivide le dimensioni. La natura, la forma, la consistenza, i movimenti di questi “eidola” suggeriscono in modo irresistibile alcune caratteristiche strutturali di ciò che ,adesso, noi chiamiamo “immagini”. Proviamo, ancora una volta, a semplificare il glossario:

“figure” saranno le rappresentazioni fisiche di un oggetto, “immagini” le rappresentazioni mentali di un oggetto. È evidente che questo nostro “figure” è analogo all’inglese “pictures”, mentre “immagini” è abbastanza vicino alla parola “images”. Per continuare l’esempio: un dipinto ad olio su tela o una fotografia, ma anche un file d’immagini che genera la caraffa su di uno schermo, sarà una “ figura”, una “picture” di quell’oggetto specifico. Quello che “vedo” se chiudo gli occhi e immagino la caraffa è una “immagine”.

Torniamo alle dimensioni fisiche degli oggetti. La caraffa è misurabile con un regolo. Per esempio, le affianco un regolo metallico centimetrato poggiato con una estremità sullo stesso tavolo su cui poggia la caraffa e lo tento verticale e immobile. Quindi, io collego la bocca della caraffa con il regolo metallico mediante un elemento rigido orizzontale, come una squadra scorrevole, e sulla scala incisa sul regolo leggo 26 centimetri. Se, intendo misurare anche il tappo, anche esso in cristallo e piuttosto significativo, ripeto l’operazione e leggo 34 centimetri. Un tappo di 8 centimetri! La caraffa è una caraffa con tappo o no? Lasciamo queste trappole e questi tappi lungo la strada altrimenti non arriviamo mai a destinazione. È stato assai facile rendersi conto di come la descrizione verbale dell’operazione di misura si sia fatta piuttosto complessa, anche lessicalmente e non solo sintatticamente, perché sono state introdotte una serie di nuove “idee”: orizzontalità, verticalità, contatto meccanico, allineamento, immobilità, ecc. E, alla fine, sarà assai saggio chiudere un occhio sulla scala “incisa in metallo”, altrimenti, davvero, non finiremmo mai a misurare la caraffa e Achille non supererà mai la tartaruga. E, Zenone, ne sarà contento.

Non vorrei insistere sulla macchinosità del processo di misurazione dimensionale di oggetti fisici ben definiti e non in moto rispetto al “sistema di riferimento” cui appartiene il sistema di misura. Ne abbiamo abbastanza di difficoltà per complicarci ulteriormente la vita. Il nostro scopo è di individuare, almeno. il problema sulla dimensione delle immagini. Come visto prima si può, con una certa ragionevolezza, stabilire un confine classificatorio tra “immagini” e “figure”. Le figure, tutto sommato, sono degli oggetti e, da questo punto di vista misurare una caraffa di cristallo non dovrebbe essere concettualmente differente del misurare la Pietà Vaticana scolpita dal giovane Michelangelo. Misurare un ologramma, che dovrebbe forse essere una “figura”, già rappresenterebbe un problema non male. Infatti un ologramma, che pure può rappresentare con estrema chiarezza una caraffa di cristallo o Biancaneve o, proprio, la Pietà Vaticana, è composto esclusivamente di luce ed è visibile sotto particolari condizioni di illuminamento e di direzione di osservazione. Ma stavamo cercando di “misurare una immagine” ossia “quello che vedo quando, dopo aver chiuso gli occhi, voglio vedere una caraffa, o Biancaneve”. Stiamo tentando di “misurare” un fatto mentale. È possibile, è pensabile, è legittimo, è ragionevole? Ma, soprattutto, serve a qualcosa?

Per rispondere occorre ritornare ad un momento, diciamo ad un periodo tra gli anni 70- 80 in cui questo problema fu intensamente dibattuto e che produsse alcuni straordinari, ma anche stranissimi, risultati sperimentali. Per familiarizzarsi pensiamo ad uno degli esperimenti più famosi di allora e che, direttamente, ha a che fare con il problema delle dimensioni delle immagini mentali. Un psicologo, cognitivista? mentalista? di nome Stephen Kosslyn, nel 1975 vi invita gentilmente a rispondere ad una sua solerte assistente in camice candido che vi chiede:

“Caro Soggetto, la prego di immaginare uno accanto all’altro un elefante e un coniglietto. Riesce a vedere i baffi del coniglietto?”.

Sembra incredibile che si debba pagare, e anche bene, qualcuno che faccia delle proposte simili, magari in un luogo deputato come un laboratorio scientifico con tanto di camice, computer e tapparelle abbassate per rimuovere la realtà e il parcheggio di sotto. Ma le cose sono andate proprio così.

Non so cosa avreste risposto e, poi, si tratta di privacy e non abbiamo accesso ai protocolli di laboratorio.

Ma la scienza non si ferma per questo. L’ esperimento continua.

“Grazie, caro Soggetto. La prego, adesso, di immaginare una mosca vicino al coniglietto di prima. Riesce a vederne la sua proboscide?

La psicologa, nel suo camice immacolato, prende nota di qualcosa sul suo computer. Ma, adesso, viene la prova risolutiva, quella da cui, voi pensate, dipenderà l’assunzione nella Corporation dei vostri sogni.

“Molte grazie, caro Soggetto. La prego, adesso, di immaginare un gatto vicino al coniglietto. Vede le vibrisse del gatto?”

Voi rispondete e la psicologa sorride incoraggiante: forse sarete assunto.

Possiamo adesso dimenticare questo cut e cercare di capire se il Dott. Stephen Kosslyn fosse un pazzo e la sua associata una creatura pericolosa, o solo una demente delle tante che popolano i nostri sogni in serial. O, invece, dei normali ed onesti psicologi che lavorano duro e si guadagnano onestamente il pane. Cosa avevano in mente? Non dimentichiamo che stiamo parlando di “immagini” e non di “figure”. Il dato che voi avete consegnato alla psicologa era, molto semplicemente, un “tempo di risposta”. Vi hanno misurato il tempo che intercorreva tra la sua domanda e la vostra risposta: “Dottoressa, i baffi, dice?… ecco adesso vedo bene i baffi del coniglietto!” oppure “Aspetti un poco, la proboscide, diceva? Ma, non so…accidenti, eccola”, oppure, nella prova del nove “Ma certo! Le vibrisse del gatto le vedo benissimo. Anzi le devo dire che le ho viste subito”.

Sarà che, molto probabilmente, la cosa è andata così:

Primo caso: Elefante contro Coniglietto tempo di risposta =3.5 sec

Secondo caso: Coniglietto contro Mosca =3.2 sec

Terzo caso: Coniglietto contro Gatto = 1.5 sec.

Avrete facilmente notato la presenza del coniglietto in tutte e tre le prove. È sin troppo chiaro che si tratta di una “unità di misura” comune a tutto l’esperimento nel suo complesso.

Assicuro che i dati sono presi di peso dalle pubblicazioni, in particolare quelle di S.Kosslyn e all del 1983 pubblicate sul Journal of Experimental Psychology General, 112 : 287-303.

Cosa vogliono dire i dati? L’interpretazione è estremamente ingegnosa e intelligente.

 

Sketches, Fulvio Caldarelli

 

Immaginiamo di star vedendo una figura con un elefante e un coniglietto vicini tra loro. Se ci chiedono di vedere il dettaglio dei baffi del coniglietto dobbiamo avvicinarci, guardar meglio, magari ingrandire l’immagine o eseguire una serie di azioni ognuna delle quali impegna un certo tempo per essere completata. Adesso ci fanno vedere un bel dipinto di un coniglietto, magari lo stesso di prima, con vicina una mosca. E ci chiedono: “ E, la proboscide della mosca, la vede bene?” Ancora una volta indaghiamo con attenzione, usiamo una lente d’ingrandimento, controlliamo… ecco la proboscide ma anche gli occhi sfaccettati, un dettaglio dei peli delle zampe, ecc. Prima di vedere questi dettagli ci mettiamo un bel po’ di tempo. Ma, al terzo caso, nel quale ci viene presentato un bel quadretto, magari una fotografia del nostro vecchio amico coniglietto e di un bel gatto le sue vibrisse le vediamo subito. Non abbiamo bisogno di ingrandimenti, di avvicinarsi, di isolare zona specifiche della “figura”. Questo esperimento, che all’inizio appariva un po’ ridicolo e quasi insensato, ci ha mostrato che le immagini sembrano condividere alcuni elementi in comunione con le figure. Un elemento almeno sembra proprio comportarsi in modo analogo: la dimensione spaziale. È più che ovvio che questo esperimento appartiene a molte serie di procedure, con molte centinaia di casi, arricchite di variabili incrociate, di statistiche anche molto severe, e che segnano lunghi anni di ricerca. La scuola di Stephen Kosslyn ha indicato una via per lo studio della dimensione delle immagini mentali e ha suggerito il concetto generale che esse si “comportino” come le immagini tratte dal mondo reale attraverso i “legali” organi di senso: ossia il complesso visivo. Può essere veramente affascinante osservare come la variabile misurata, l’unica possibile dopo tutto, sia un tempo e non una distanza. Il tempo, ossia il tempo di risposta, potrebbe essere analogo al “tempo macchina” di un processo di riconoscimento da parte di una banca dati. Ma di queste analogie non parleremo. Passiamo, piuttosto, ad un altro assai significativo esperimento, anche questo quasi dello stesso tempo, il 1971, forse ancora più impressionante e fertile di risultati.

Adesso, lo psicologo si chiama Roger Shepard. Vi viene mostrata una figura, questa volta. Un disegno geometrico che rappresenta molto chiaramente un solido sospeso nello spazio e composto di tre bracci di eguale lunghezza, ciascuno ad angolo retto con il precedente. Il disegno è, per le nostre convenzioni occidentali con cui noi rappresentiamo oggetti tridimensionali, assolutamente inequivocabile. Adesso ci si chiede di “ruotarlo nella nostra mente” sino a fargli assumere una posizione definita e finale. La “rotazione mentale” può essere eseguita ad occhi chiusi, aperti , e sotto tutta una varietà di variabili assai ben controllate. Al momento in cui il solido è “arrivato” nella posizione finale richiestaci e da noi decisa, pigiamo un bottone. I risultati furono spettacolari e tuttora sono alla base del capitolo “Mental Rotation” di ogni manuale di percezione visiva. La bellezza del semplice esperimento, la correttezza dei dati, la assoluta ripetibilità per culture, razze, gruppi etnici e linguistici anche remotissimi tra loro, sono state infinitamente riconfermate ed appartengono, ormai, ai dati di base elementare per lo studio delle “immagini”. Dai dati si trae una interessante informazione: la velocità della “rotazione mentale” è di circa 60 gradi al secondo. Ancora una volta, un elemento dimensionale costituito dalla messa in paragone di una “figura” iniziale e da una “immagine” finale si è trasformata in tempo. Angoli in secondi, in questo caso. La bellezza dell’esperimento di Shepard è che, deliberatamente, utilizza un dato fisico, esterno, ecologico, un segno su di un substrato, una “figura” contro una “immagine” mentale: la nostra interna, privatissima, silenziosa “immagine “del solido ruotato e fatto fermare alla posizione prestabilita. Il valore della velocità di rotazione, circa 60 gradi al secondo, come potete facilmente immaginare, gioca di per sé un ruolo estremamente importante. Ma, qui la cosa si inoltra in un campo assai specifico e molto tecnico e ci giova, per concludere, tornare indietro. Magari di moltissimi anni. E sfiorare, ma silenziosamente per non destarci, il mondo dei sogni.

È buona pratica ricordare che il secolo passato è iniziato, anche, con il “Die Traumdeutung”, “L’interpretazione dei sogni”, di Sigmund Freud. Magari la cronologia esatta è diversa perché il libro fu stampato ancora nel 1899 da parte dell’editore Franz Deuticke. Ma, poiché passiamo da quelle parti una osservazione “laterale” non ci starebbe male. Nell’edizione dell’anno 1932- IX della Enciclopedia Treccani la voce “Freud” è di 30 righe, la voce “Frescobaldi Gerolamo” di 300 righe e la voce “Fresa” di 250 righe. Mentre nella Piccola Treccani del 1995 “Freud “totalizza 320 righe, il povero “Frescobaldi Gerolamo” si vede ridotto a solo 65 e la “Fresa” arriva malamente a 100 righe.

Sicut transit Gloria Mundi”.

Ma torniamo ai sogni, e in fretta, poiché il risveglio sta divenendo prossimo. Naturalmente non è il caso di ricordare il quadro interpretativo del sogno nella “interpretazione” del Freud di allora e che ha subito e continua a subire intensi e giustificati attacchi. Quello che, qui, potrebbe interessare è un sospetto sugli aspetti dimensionali e temporali del sogno.

Se il sogno è produzione schiettamente e unicamente endogena della corteccia visiva, in cooperazione, ovviamente, con tutti gli altri distretti cerebrali, non possiamo evitare la questione: quanto costa, in termini energetici o metabolici, un buon sogno di qualche decina di secondi? In accordo alle nostre modestissime definizioni, il sogno deve ricadere nella classe delle “immagini” e non, certo, in quella delle “figure”. Secondo Kosslyn, Shepard, Finke e altri psicologi le “immagini” avrebbero una natura percettivo-ottica, ossia si “comporterebbero” come se alla loro origine ci fossero delle cose o delle “figure”. Naturalmente, le retine del dormiente non stanno trasferendo dati alle cortecce perché su di esse non si stanno proiettando “immagini ottiche” di oggetti fisici. Quindi, quello che “vediamo” nei sogni è di natura immediatamente endogena. L’origine di natura mnemonica, associativa, evocativa, ecc è ovvia e banale e deve essere integrata nell’interpretazione, anche non psicanalitica, del sogno in atto. Ma restano dei problemi. Un sogno a colori, con molti eventi, di una durata anche breve, popolato di “immagini” in movimento, di forme, individui anche ben riconoscibili e quindi evocabili al momento del risveglio, deve poter contare su una sorgente di energia molto significativa. In termini di bit/sec ci si dovrebbe trovare in presenza di un “file d’immagine” enormemente pesante ma anche “scaricato” in tempi brevissimi. Da dove proviene lo stream , in che codice è scritto, dove è “scritto”, fisicamente, il programma, quanto costa in termini di posizioni di memoria occupata, sono presenti forme di compressione dei dati, lo “schermo” viene “rinfrescato” ogni quanti decimi o centesimi di secondo, esiste un meccanismo di reply, dove vengono memorizzati i dati alla fine del sogno ? ecc.

Naturalmente, questa non è una ingenua speranza che le procedure in uso nella informatica d’immagine possano essere travasate semplicemente e felicemente in questo campo o problema. Non si potrebbe essere più superficiali e rozzi di così. Ma resta il problema. Circa venti anni fa, però, Sir. Francis Henry Compton Crick,, il co-autore della decifrazione del codice del DNA nel 1962 assieme a J.D. Watson e M. F. H. Wilkins, creò nel Sud della California un Istituto per le Neuroscienze. Un lavoro, firmato proprio da Crick mi interessò assai, allora. Si trattava di uno stranissimo articolo, assai più teorico che sperimentale, in cui l’ex Premio Nobel insisteva nel ritenere i sogni come una sorta di procedura di cancellazione stocastica, semi-automatica, delle “memorie parassite” che, secondo Crick avrebbero finito per paralizzare l’attività cerebrale conscia , continua e necessariamente efficiente dello stato di veglia. Non sono in grado di indicare, in questo momento i riferimenti bibliografici del lungo articolo. Ma esso apparve su “Science” nel 1990. Non ho nessuna intenzione né competenza per “giudicare” il lavoro teorico di Sir. Francis Crick, naturalmente e questa idea della “cancellazione delle memorie parassite” ha decisamente qualcosa di freudiano anche se rivestita da panni attinenti alle Neuroscienze e alla allora albeggiante informatica. Ma si trattava di un buon passo nella direzione di individuare nei processi onirici almeno alcuni elementi abbordabili con le armi quasi attuali delle scienze informatiche. Quindi estendere il concetto di dimensione, di distanza, di apparenza visibile, di lay out, di competizione figura-sfondo, di colore addirittura, alle attività schiettamente oniriche come sotto-famiglia del processo di “immaginazione”. Potrebbe, addirittura, accadere che queste introduzioni un po’ meccaniche, tecniche e di ascendenza puramente computazionale possano, alla fine, essere inserite con successo persino entro un classico schema freudiano.

Un ultimo “codicillo” prima di lasciare definitivamente l’argomento ma senza il quale il quale la presentazione delle esperienze di Kosslyn, Shepard, Finke e compagni sarebbe troppo unilaterale and ingiusta. Si tratta del povero Zenon Pylyshyn, un nome che è sempre meglio copiare letteralmente più che citare, rischiosamente, a memoria e sulla base della sola “immagine”. Ho scritto “povero” con ammirazione e partecipazione ma anche indicando la definitiva vittoria dei “perfezionisti-ottici” nella controversia che ha infuriato per tutto il decennio 1970-1980 e che si è conclusa, per il momento, con la vittoria di costoro e la sconfitta del “povero Zenone”.

In breve, e come abbiamo veduto, i dati sperimentali sembravano indicare con insistenza che le “immagini mentali” fossero una sorta di copia analogica di quelle che si vengono a generare, e ancora non sappiamo bene come, nelle cortecce visive in conseguenza dei segnali riversati dalle retine, via il Corpo Genicolato Laterale, su di esse. Il dottor Pylyshyn è filosofo, linguista, logico al contrario dei competitori che erano, sostanzialmente, fisiologi, psico-fisiologi, psicologi tout court. E da filosofo dice la sua, che non era poi, così male. La vividezza delle immagini mentali, la loro ottima e spesso coerente organizzazione spaziale, la loro evocabilità a richiesta, la stessa precisa e misurabile rotazione mentale non derivano queste loro caratteristiche incontrovertibili (e sino ad un certo punto secondo il filosofo che non aveva poi tutti i torti) da una base fisiologico-percettiva. Non era il ripetersi, in ambiente interno, di una procedura utilizzata sino allora e soltanto per il processing dei dati di origine visiva e quindi ecologica. Non era il processo parallelo su di un altro, non individuato, canale di dati originati in sostanza da una grandissima banca dati di origine ottico-percettiva. No! Si trattava di costruzioni di origine squisitamente linguistica. Le “immagini” erano la conseguenza di una elaborazione di dati astratti provenienti da banche dati di tipo nominale, “numerico”, ma soprattutto “pro-posizionale”. L’ultima parola non è italiana, ovviamente, ma indica che la vera natura del processo costruttivo della “immagine menale” è di tipo linguistico comunicativo, lo stesso che sta alla base della costruzione del discorso vero e proprio. E, seguendo il quale si giunge alla costruzione delle “pro-posizioni”. Quindi l’accostamento tra Elefante e Coniglietto non sarebbe quello tra due “figure” che finiscono per generare una “immagine mentale” ma quello tra due “parole” o meglio due “configurazioni linguistiche”. Il tempo di risposta che aumenta con la differenza dimensionale tra le due “immagini” altro non sarebbe che il tempo di consultazione di una banca dati incrociata in cui sono presenti i nomi degli animali ma anche le loro dimensioni relative, i dettagli del loro corpo. Tanto più diverse le entries tanto più lungo il tempo di consultazione. Non è il caso di listare qui tutte le contro-offensive sperimentali dei perfezionisti-ottici e il loro convincimento di avere evitato, in tutte le procedure sperimentali, il pericolo del “dizionario enciclopedico neurale”. Ufficialmente e ufficiosamente, al momento, i Kosslyn, Shepard ecc hanno vinto e stravinto. Dicono. Di Zenone non so nulla: forse sta inseguendo, ancora, la sua tartaruga.

Coraggio: Maestra Carla Fracci! la Piccola Treccani le dedica nel 1995 esattamente lo stesso numero di righe che la Grande Treccani dedicava, nel 1932 a Sigmund Freud: solo 30. Forse nella “Piccolissima Treccani” del 2070 Lei avrà conquistato 300 righe. Per il momento sia lui che Lei siete onorati con una fotografia che mostra la vostra reciproca “immagine”. Lei, bellissima, misteriosamente sospesa sulle punte nella sua Giselle durante il Festival dei Due Mondi a Spoleto nel 1980. Lui, le spalle di profilo il volto di fronte, gli occhi che scrutano nel fondo di chissà quali pozzi perduti della coscienza umana: la morte a due passi.

 


[english]

(from NB. Issue 0, Year I – october 2009 – january 2010)

 

There is a very basic variable which is always intervening in our perception of the world: the physical extension of objects. Should we call this variable, in more familiar terms, ‘greatness’ , we are not risking too much, but it is already rather strange that the chosen Italian word – but this happens in other languages too – is ‘greatness’ and not ‘smallness’. And vice versa. But not always symmetrically. And this occurs even if our corporal dimensions do not alter between the first and the second perceptive experience, with the same object in two different contexts. A series of environmental conditions intervenes immediately to complicate the issue. Variables like distance, limited visibility, mutual movement, the luminous contrast with the background, the spatial context, the presence or absence of a recognisable horizon as such, everything interferes with judgement, which one would have liked to be simple and ‘pure’. Thus, if we take account – and how can we not? – of the rest of the world, the two categories seem confounded and are situated in an alarming continuity or even, inseparable, one from the other.

In this very preliminary phase it would be of use to introduce a second linguistic level and should we not establish it, we will end up creating other ‘paradoxes of Zeno’ which would hinder (facilitate?) our itinerary. This second level has to do with the difference between things and their representations. i.e., between the crystal jug on my table and a ‘representation’ of it. For example a photograph, a painting, an engraving, a simulation in Auto-Cad, a photogram, a JPG thumbnail, which ‘represents’ the crystal jug. All these representations will have a common feature; looking at them, we will recognise in them the jug. Titus Lucretius Carus would be satisfied with this. More than two thousand years later we use a concept which is a basis for his De Rerum Natura, the idea of eidola. An ‘eidolon’ is a sort of copy of an object, the same as the original, which perhaps shares its dimensions. The nature, the form, the consistency the movements of these ‘eidola’ clearly suggest certain structural characteristics of that which, now, we call ‘images’. Let us try, once more, to simplify the glossary: ‘figures’ will be the physical representations of an object, ‘images’, the mental representations of an object. It is clear that this ‘figure’ of ours is analogous to the English ‘pictures’ whereas ‘immagini’ is rather close to the word ‘images’.

To go on with the example: an oil painting on canvass or a photograph, but also a row of images which generates the jug on a screen, will be a ‘figure’, a ‘picture’ of that specific object. That which I ‘see’ if I close my eyes and imagine the jug is an ‘image’. Let us return to the physical dimensions of objects. The jug is measurable with a ruler. For example, I put beside it a metal ruler placed on one end of the same table the jug is on and I leave it vertical and immobile. Then I connect the mouth of the jug and the metal ruler by means of a rigid horizontal element, like a set square, and on the scale cut into the ruler I read 26 centimetres.
If I wish to measure the cork too, this too in crystal, and rather significant, I repeat the operation and read 34 centimetres. A cork of 8 centimetres!

Is the jug a jug with a cork or not? Let us leave these traps and these corks by the way otherwise we will never get to our destination.
It was rather easy to realise how the verbal description of the operation of measurement got to be rather complex, also lexically and not only syntactically because a series of new ‘ideas’ were introduced: horizontality, verticality, mechanical contact, alignment, immobility, etc. And, in the end, it will be rather wise to turn a blind eye to the scale ‘cut into metal’, otherwise, really, we will never be able to measure the jug and Achilles will never overtake the tortoise. And Zeno will be happy.

Our intention is to single out at least the problem of the dimension of the images. As we saw before, we can, reasonably, establish a classificatory border between ‘images’ and ‘figures’. Figures, more or less, are objects and from this point of view measuring a crystal jug should be no different, conceptually, to measuring the Pietà Vaticana sculpted by a young Michelangelo. Measuring a hologram, which should perhaps be a ‘figure’, is already quite a problem. Actually a hologram, which can still represent with extreme clarity a crystal jug or Snow White or indeed the Pietà Vaticana is make up exclusively of light and is visible in particular lighting conditions and an observation direction. But we were trying to ‘measure an image’ or that which I see after I have closed my eyes – I want to see a jug or Snow White. We are attempting to ‘measure’ a mental fact. Is this possible , thinkable, legitimate, reasonable? But above all, Is it worth it?

To answer this question, we have to go back a moment to a period between the 1970s and ‘80s in which this issue was being intensely debated and which produced certain extraordinary but also very strange experimental results. To familiarise ourselves with one of the most famous experiments of the time which bears directly upon the problem of the dimensions of mental Images. A psychologist, cognitivist?, mentalist? named Stephen Kosslyn in 1975 politely invites you to respond to a diligent assistant of his dressed in a candid white shirt who asks you: “Dear Subject, try to imagine an elephant next to a small rabbit. Are you able to see the rabbit’s whiskers? The experiment goes on.

“Thank you dear Subject. Please now would you imagine a cat next to the rabbit. Can you see the cat’s vibrissae?”
The Information you have given psychology was very simply an ‘answer time’. They measured the time which passed between the question and your answer: “Doctor, the whiskers you say? …now I see the rabbit’s whiskers well!” or “Wait a moment, the trunk you said? I don’t know…damn, there it is”, or in the litmus test “Yes, surely! the cat’s vibrissae I can see them perfectly well.
Actually, I must say, I saw them immediately”.
Probably what happened was this: First case: Elephant versus Rabbit, answer time = 3.5 secs
Second case: Rabbit versus Fly = 3.2 secs
Third case: Rabbit versus Cat = 1.5 secs
You will surely have noticed the presence of the rabbit in all three of the trials. It is obvious that we are dealing with a ‘measuring unit’ common to the experiment as a whole.
What is this data telling us? The interpretation is extremely ingenious and intelligent. Imagine we are looking at a figure with an elephant and a small rabbit next to it. If they ask us to look for the detail of the whiskers we have to get nearer, look harder, perhaps enlarge the image or carry out a series of actions, each of which takes up a certain amount of time. Now they let us see a nice painting of a rabbit, perhaps the same as before, next to a fly. And they ask us: “And the proboscis of the fly, can you see it clearly?” Once more, we look carefully, we use a magnifying lens, we check…there is the proboscis but also the multi-faceted eyes, a detail of the hairs on the legs, etc. Before seeing these details we take some time. But in the third case, we are presented with a nice picture, perhaps a photograph of our old friend the rabbit and a nice cat whose vibrissae we see immediately. We don’t need enlargements, or to get closer, to isolate particular areas of the ‘figure’. This experiment, which at first seemed a little ridiculous, practically senseless, shows us that images seem to share certain elements in common with figures. One element at least seems indeed to behave in analogous fashion: the spatial dimension. Now the psychologist is Roger Shepard. This time you are shown a figure. A geometric design which clearly represents a solid suspended in space and made up of three arms of an equal length, each at right angles to the previous one. The design follows our western conventions according to which we represent to ourselves three-dimensional objects – absolutely unequivocal. Now we are asked to ‘rotate it in our minds’ to the extent that we make it assume a definite, final position. The ‘mental rotation’ can be carried out with our eyes closed, and with a variety of rather well controlled variables. At the moment in which the solid has ‘arrived’ at the final position asked of us and decided by us, we press a button.
The results were incredible and are still the basis of the chapter Mental Rotation of every handbook of visual perception. Once more, a dimensional element made up of the comparison of an initial ‘figure’ and a final ‘image’ is transformed into time. Angles into seconds in this case. The beauty behind Shepard’s experiment is that, deliberately, he uses physical, external, ecological data, a sign on a substratum, a ‘figure’ versus a mental ‘image’: our internal, very private, silent ‘image’ of the rotated solid made to stop in the pre-established position. The level of the speed of rotation, about 60 degrees per second as you may easily imagine, plays in itself an extremely important role. But here the thing is forwarded to a rather specific and very technical field and it helps, to conclude, to go back. Perhaps many years back. And silently touch upon – so as not to awaken ourselves – the world of dreams.

It is useful to recall that the last century also began with Die Traumdeutung, The Interpretation of Dreams by Sigmund Freud. Perhaps the exact chronology is different because the book was printed in 1899 by the editor Franz Deuticke. But since we are going that way, a ‘lateral’ observation wouldn’t be a bad idea. In the 1932 edition – IX of the Enciclopedia Treccani the heading ‘Freud’ is 30 lines, the heading ‘Frescobaldi Gerolamo’ is 300 lines and the heading ‘Fresa’, 250 lines. While in the 1995 Piccola Treccani ‘Freud’ gets 320 lines – poor ‘Frescobaldi Gerolamo’ goes down to only 65 and ‘Fresa’ only just gets 100 lines. Sciut transit Gloria Mundi.

But let’s get back to dreams, and we should hurry because the reawakening is upon us. Obviously we should recall the interpretative outline of the dream In Freud’s ‘Interpretation’ at the time and which underwent and continues to undergo intense and justified assault. That which might interest us here is a suspicion about the dimensional and temporal aspects of the dream. If the dream is a bluntly and uniquely endogenous product of the visual cortex, cooperating, obviously with all the other cerebral zones, we cannot avoid the question: how much in terms of energy or metabolism does a good ten-second dream cost? In accordance with our very modest definitions, the dream has to fall within the range of ‘images’ and certainly not that of ‘figures’. According to Kosslyn, Shepard, Finke and other psychologists ‘images’ have a perceptive-optical nature, or they ‘behave’ as if at their origins there were things or ‘figures’.

Obviously the retina of the sleeper is not transferring data to the cortex because ‘optical images’ are not projecting physical objects on to them.Thus, what we ‘see’ in dreams is by definition immediately endogenous. That the origin is of a mnemonic, associative, evocative, etc. nature is obvious, trite even, and has to be integrated in the interpretation, non-analytical too, of the dream going on. But problems remain. A dream in colour, with many events, of even a short duration, populated with ‘images’ in movement, forms, individuals, even those most recognisable and thus evocable at the moment of waking up, has to be able to count on a very significant source of energy. In terms of bit/sec we should find ourselves in the presence of ‘rows of images’ which are terribly heavy but also ‘downloaded’ in very short times.
Where does the stream come from, what code is it written in, where is it ‘written’ physically, the programme, how much does it cost in terms of positions of memory taken up, are forms of data compression present, is the ‘screen’ ‘refreshed’ every how many tenths or hundredths of a second, does there exist a reply mechanism, where are the data memorised at the end of the dream? etc. Obviously this is not a naïve hope – that the procedures of use, in informatics, of the image can be transferred simply and happily into this field or issue. Nothing could be more superficial or vulgar. But the problem remains. However, about twenty years ago Sir Francis Henry Compton Crick , the co-author of the decyphering of the DNA code in 1962, together with J.D. Watson and M. F. H. Wilkins, established an Institite for Neurosciences in southern California. One work, signed indeed by Crick, was of great interest to me at the time. It was a very strange article, rather more theoretical than experimental in which the Nobel prizewinner insisted on maintaining that dreams as a sort of procedure of stochastic, semi-automatic deletion of ‘parassitic memories’ has definitely got something Freudian about it, if seen in the guise of neurosciences and what was then a dawning information science.
One last codicil before we leave this argument definitely but without which the presentation of Kossyln’s, Shepard’s, Finke’s and friends’ experiences would be unilateral and unfair. We have poor Zenon Pylyshyn, a name it is always better to copy literally rather than quote, from memory and on the basis of just the ‘image’. I have written ‘poor’ with admiration and participation but also indicating the definitive victory of the ‘perfectionist- opticists’ in the controversy which flared during the 1970s and which has finished, for the moment with their victory and the defeat of ‘poor Zenone’. In short, and as we have seen, the experimental data seemed to indicate insistently that the ‘mental images’ were a sort of analogical copy of those which come to be generated and we still do not know very well how, in the visual cortex, as a result of the signals transferred by the retina, via the lateral geniculate body on to them.
Doctor Pylyshyn is a philosopher, linguist, logician, as opposed to his opponents who were basically physiologists, psycho- physiologists, pyschologists tout court. And as a philosopher, he said what he thought, which was not actually so bad. The vividness of the mental images, their excellent and often coherent spatial organisation, their evocability on request, the precise and measurable mental rotation itself, do not derive these incontrovertible characteristics of theirs (and up to a certain point the philosopher, who was not actually mistaken entirely) from a physiological-perceptive origin. It was not the repetition, in an internal environment, of a procedure used up to then and only for the processing of data of a visual and thus ecological origin. It was not the process, parallel to another, not singled out, a channel of data which originated basically in a vast data bank of an optical-perceptive origin. No! They were constructions of a decidedly linguistic nature.

The ‘images’ were the consequence of an elaboration of abstract data coming from nominal-type, ‘numerical’, but above all ‘pro- positional’ data banks.
The final word is not Italian, obviously, but indicates that the true nature of the constructive processes of the ‘mental Image’ is of a comunicative-linguistic type, the same which is the basis of the construction of the discourse itself.

And, following which we arrive at the construction of the ‘pro- positions’. Therefore, the pairing of Elephant and Rabbit is not that between two ‘figures’ which end up generating a ‘mental image’ but that between two ‘words’ or rather two ‘linguistic configurations’.

The answer time which increases with the dimensional difference between the two ‘images’ is nothing other than the time of consultation of a reciprocated data bank in which are present the names of the animals but also their relative dimensions, the details of their body. The longer the entries the longer the time of consultation.

Courage, Maestra Carla Fracci! in 1995 the Piccola Treccani dedicated to her exactly the same number of lines that the Grande Treccani dedicated to Sigmund Freud in 1932: only 30. Perhaps in the Piccolissima Treccani in 2070 you will have conquered 300 lines.

For the moment both of you will be honoured with a photograph showing your mutual ‘image’. You, beautiful, mysteriously suspended on your toes in your Giselle during the Festival dei Due Mondi in Spoleto in 1980. You, in profile, the face frontal, the eyes scrutinising the depths of who knows which lost pools of the human consciousness: death two feet away.