Un arco di luce

Mi è stato detto che su questo numero della rivista Nota Bene si è, opportunamente, scelto di ripubblicare Goethe e la teoria dei colori di Gillo Dorfles, breve saggio apparso originariamente nel 1949 sulle pagine della rivista La rassegna d’Italia (anno IV, n. 11- 12). Con mio grande imbarazzo, mi è stato molto gentilmente richiesto di commentare, in qualche misura l’iniziativa. Dopo alcuni sbandamenti, scoperte e esitazioni, ecco le righe che ho messe assieme per venire incontro alla gentile, ma impegnativa richiesta. 

Le due esplicite incursioni che Goethe conduce nelle province delle scienze, come già allora potevano essere percepite sono, in modo più completo e coerente, da un lato, il Farbenlehere stesso e dall’altro, con un’attitudine meno sistematica e più lirica ciò che possiamo ancora leggere nella sua poesia, del 1798 chiamata Die Metamorphose der Planzen. (1)

fig.1. Disegno che intende rappresentare la progressiva evoluzione e devoluzione di alcune foglie. Utilizzando questa grafica molto didattica, ma anche intensamente metaforica l’autore evoca, magari non consciamente l’idea stessa di arcobaleno ossia di un “accordo”, di un patto tra l’Uomo e la Natura

Il rapporto percettivo e ideale che Goethe, ma anche Schiller, pongono alla base delle loro intuizioni sulla vera e propria gestalt delle piante è la base da cui parte Jochen Bockemühl per analizzare le osservazioni “scientifiche” sulla cosiddetta Metamorfosi. Il primo passo che, a livello del nostro linguaggio odierno non ha, poi, più molto senso è la necessità di comprendere: cosa sia una Pianta, come essa sia capace di crescere in diverse condizioni di vita, che tipo di morfologia essa sia in condizioni di esprimere” e simili prese di coscienza. Ma, anche una decente definizione di cosa sia un impulso, un abbozzo, la stessa dilatazione potrebbero aiutarci per comprendere la vera essenza del discorso sulla Metamorfosi. Forse l’attuale termine molto generale di Ecologia potrebbe essere l’attrezzo linguistico che ci porta il più vicino possibile al modo di pensare, e di scrivere di Goethe. Nella poesia cui abbiamo accennato esiste una ben precisa strategia cromatica, un vero disegno progressivo e strutturato in cui il termine colore gioca un ruolo critico. Riporto qui, accanto al numero progressivo del verso, le connotazioni cromatiche: luce (v.13) e questa è la necessaria introduzione linguistica a tutta l’argomentazione lirico-tecnica che seguirà, incolore (v.17), qui, si fa notare la curiosa assenza di colore nel seme «che cresce nella notte», dove notte non indica, ovviamente quella particolare sezione del giorno ma: « … il buio che si sprigiona nella forma più alta di tanti colori» (v. 45), «la foglia colorata avverte la mano divina» (v. 52), infine per esplodere «nel brulichio colorato che non si agita più vertiginosamente nel tuo spirito» (v. 52). Alla fine, si comprende lo scopo un po’ didattico e maschile di Goethe che si china su di una fanciulla «turbata dal multiforme miscuglio dei fiori». Si tratta di una Geliebte il cui delicato orecchio pena nell’ascoltare: «…i barbarici accenti dei nomi dei fiori». È proprio nel 1799 che Henrik Steffens, il cui tedesco, barbaricamente commisto ad un corretto, ma alieno accento danese, nel suo Was ich erlebte scrive: «Goethe aveva un gran desiderio di comunicare, per lui si trattava di convincere giovani naturalisti della giustezza delle proprie opinioni». Goethe aveva, d’altronde il 29 maggio 1801, scritto allo stesso Steffens: «mi devo sentire piacevolmente ricompensato se trovo compagnia in giovani che avanzano vivacemente sullo stesso terreno … quando arrivano da regioni lontane, per incontrarmi senza alcun appuntamento …». È un poco triste e deludente sapere che proprio nello stesso mese circa egli scrivesse a Wolf, deridendo apertamente il povero ingenuo e incantato Steffens(2) (fig.1). 

Ma, è davvero il momento di lasciare Goethe e le sue Urplanzen da lui viste o meglio, intuite, nel giardino botanico di Padova nel settembre 1786 ma assorbite psicologicamente nell’estatico pomeriggio passato in loro compagnia, pochi mesi dopo, nel giardino pubblico prossimo al porto di Palermo, il sette di aprile dello stesso anno. 

 

fig. 2 Il trittico delle delizie che, qui, appare chiuso con le due ante esterne che si completano, figurativamente, a vicenda. Nelle riproduzioni in cui il fatto che il dipinto venne concepito ed eseguito engrisaille le strisce di luce possono essere prese per l’arcobaleno. Ma è troppo evidente che siamo ancora al Terzo giorno della Creazione

La vera originaria, capostipite di tutte le piante attende ancora: «…sulla sua foglia colorata il tocco della mano divina». Occorre, talvolta, far parlare direttamente chi parlò, dio, in questo caso: «Egli disse: questo è il segno dell’alleanza / che pongo tra me e voi … il mio arco lo pongo sulle nubi / … l’arco sarà sulle nubi e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra dio e ogni essere che vive in ogni carne sulla terra…». strettamente parlando, il fatto che l’arco sia il nostro arcobaleno, o il suo equivalente in altre lingue, non è esplicitato. La componente essenziale dell’arco è per noi la sua forma, arcuata, e il suo colore, ordinato e molteplice. Il resto non viene commentato direttamente nel testo biblico. Prima di lasciare l’argomento si può ricordare che, almeno nella “zona arcaica” la Bibbia non presenta informazioni visive particolari, piuttosto, essa è ricca di connotazioni acustiche e molti degli episodi si rammentano soprattutto per le informazioni del rumore, delle voci, dei suoni associati all’azione. torniamo, quindi al più familiare mondo delle immagini e concentriamoci su di una complessa ed inusuale immagine connessa con il processo creativo. Per ragioni che qui non interessano il mondo sociale, psicologico e mentale nel quale si mosse e produsse Jheronimus Bosch imponeva di non rendere comunemente visibile l’opera degli artisti cui proprio quelle opere erano state commissionate. sul piano pratico ed esecutivo questa attitudine si esprimeva nella attenta costruzione di politticiche fosse facile tenere ben chiusi per una grandissima parte del tempo. È il caso tipico delle due ante che chiudono in modo perentorio e solido il cosiddetto Trittico delle Delizie tuttora conservato al Prado. Non sarà stato certo un caso se il dipinto centrale rutilante di colori smaglianti, cristallini, splendidi e preziosi venga reso invisibile, una volta che le ante sono chiuse, da una immagine dipinta en grisaille in un grigio morbido, intensamente “privo di colore”. È il terzo Giorno, sulla terra, ancora disabitata ancora dominano delle forme sospese tra la natura vegetale e quella minerale. Le acque della creazione stanno, sembra, ritirandosi: «… le acque che stanno sotto il cielo si raccolgano in un solo luogo ed appaia l’asciutto … e così avvenne». Naturalmente, in cielo, abbiamo ancora grandi nuvole stranamente realistiche e “meteorologicamente corrette”. Quando Goethe, nel suo sincero trasporto d’ammirazione per Sir John Howard che, proprio a causa dei suoi studi sulle nubi era entrato, nel 1756, a far parte della Royal Society inneggia ai “Cumuli” scrive: «… se la massa grandeggiante ancora più il alto è chiamata, allora provate, laggiù, in basso, un timore, un vago senso di angoscia per una cosa che, in alto, ci minaccia …». Ma la chiusura del polittico e l’accostamento reciproco delle due ante mette in evidenza, soprattutto, un altro elemento, sulle prime non dominante. Si tratta di una serie arcuata di tracce luminose che connettono ancora il cielo e la terra. Di cosa si tratta? Sulle prime, inevitabilmente, l’arco luminoso ricorda l’arcobaleno. Ma questo non può essere, ovviamente. un arcobaleno prima del Diluvio, prima dell’Alleanza? Naturalmente ciò è illogico. Eppure, si tratta di una luce arcuata e, sembra, molteplice(3) (fig. 2). 

 

fig. 3 Uno dei tantissimi dettagli che mostra la sottilissima abilità, anche tecnica ed esecutiva, oltre che espressiva e suggestiva, di Jheronimus Bosch proprio nel manipolare in modo magistrale e sottile il colore. Non solo il color grigio.
fig. 4 Il recto della moneta di Pisanello con la scritta DON.INIGO.DE.DAVALOS. Il bel- lissimo e giovane Cimabellano indossa il tipico copricapo fiammingo che porta il lungo panno che avvolgeva anche il volto nei giorni invernali.
fig. 5 Il verso della stessa medaglia, con il misterioso paesaggio montano, il cielo fittamente stellato e, soprattutto, la enigmatica forma, assolutamente non comune della sfera sospesa nel nulla. Curiosissimo il materiale che la contiene e la determina in basso. Una sorta di cesta di vimini.

L’immagine è così atipica ed unica nella storia dell’arte da aver suscitato curiosità e sospetti. Qui, per semplicità e per non interrompere la narrazione si accenna velocemente ad una ipotesi interessante che può, tra l’altro permetterci di proseguire il lavoro. Secondo alcuni autori il “modello” potrebbe derivare dal verso di una moneta scolpita e coniata da Pisanello attorno al 1449-1450, il Trittico delle Delizie viene comunque datato attorno al 1503-1504 e su entrambe, per quanto remote tra loro, pesa l’ambiente, la tradizione, il mondo politico e di potere spagnoli. Comunque sia, Alfonso d’Aragona ha un «Hombre muy amado y intrinsico» nel nobile Don Iñigo de Aval e gli conferisce, attorno al 1449, la carica di Gran ciambellano facendone una sorta di Ministro delle Finanze. Il profilo bellissimo del giovane e potente Ciambellano è coronato da un ampio cappello fiammingo con un lembo che ricade elegantemente sul collo: indumento estremamente comune, per il suo rango, nell’ambiente fiammingo-napoletano dell’epoca. Ma, ciò che suscita il maggior interesse è il verso della medaglia che rappresenta una sfera apparentemente liquida nella sua metà inferiore e che, sotto un cielo popolato di stelle porta due picchi montani che si fronteggiano tra loro. Le scritte, a rilievo, dicono: OPVS. PISANI. PICTORIS. e PERVVI SEFA. È possibile che al tempo di Jheronimus, molti di questi simboli o allegorie fossero decisamente più trasparenti di quanto non lo siano adesso. La lucidità dell’immagine verrà adesso recitata per noi dal metallo riflettente della medaglia(4) (fig. 3, 4, 5). 

Ma, è il momento di risalire all’Arcobaleno costruito direttamente, in laboratorio e dall’uomo senza intervento divino. solo molto di recente sono stati pubblicati i fac-simile re-prints dei disegni autografi di Sir Isaac Newton che sono appartenuti da almeno due secoli alla Porthsmouth Collection of Books and Papers written by or belonging to Sir Isaac Newton. Questi manoscritti vennero riorganizzati e pubblicati attorno al 1872-1888. Ci occuperemo solo di alcuni aspetti della grafica adottata da Newton che aveva in mente il loro uso nelle lezioni da lui tenute e, poi per l’Optiks che apparirà a Londra, più tardi ossia nel 1704. Nell’analisi ravvicinata di questi disegni seguiremo il numero delle pagine scritto sui fogli (p. 3, p. 25, p. 35, p. 37 e p. 67). La loro successione numerica sembra davvero riflettere l’andamento temporale dell’argomentazione, il progressivo complicarsi e articolarsi dell’Experimentum Crucis. A pagina 3 ci troviamo di fronte, un po’ inaspettatamente, ad un interno costruito in modo assolutamente canonico con, al pavimento, la scacchiera albertiana, le pareti laterali disegnate come trapezi isosceli e, quella di fondo, come un rettangolo in scala esatta con la parete invisibile ma attraverso la quale stiamo guardando nella stanza di Newton. La prospettiva è centrale e la narrazione grafica assolutamente simmetrica. A pagina 25 la situazione è di poco mutata ma il pavimento è scomparso e il punto di vista si è decisamente spostato sulla sinistra, tanto che la parete di destra offre uno spazio didattico molto più ampio di quello di sinistra. La pagina 35 ci mostra un ulteriore significativo spostamento del punto di vista e, conseguentemente, di quello di fuga. Newton deve articolare la sua narrazione con maggiori dettagli grafici e utilizza lo spazio narrativo a sinistra per sistemarvi i due prismi, i prossimi protagonisti dell’esperimento. A pagina 37 l’operazione è chiusa e completata, Newton non ha più bisogno della Retorica dello Spazio per farsi capire da noi. L’unica cosa che lo interessa è che noi (o forse lui stesso) abbiamo compreso i rapporti che legano tra loro i due prismi, il foro alla finestra e lo spettro dei colori che si è andato a proiettare sul foglio bianco. Ciò a cui abbiamo assistito è stata la progressiva scomparsa di quell’idea di spazio che Eleanor Winsor Leach nel suo meraviglioso studio chiama con perfezione lessicale The Rethoric of Space (fig. 6, 7, 8, 9, 10, 11). 

 

fig. 6, 7, 8, 9, 10, 11 La sequenza è stata analizzata in dettaglio nel testo e, qui, non occorre commentare ulteriormente. Ma il procedere regolare della eliminazione delle strutture linguistico retoriche che cedono il passo alla stretta narrativa scientifica appare molto chiaro.

 

Non esiste alcun dubbio che Newton abbia adeguatamente sgomberato la strada per farvi passare il modo di pensare del suo esperimento.
Ma, dalla retorica, anche dello spazio, è assai difficile liberarsi. Tutto sommato nella nostra privata concezione del Mondo la deformazione prospettica è una componente ineliminabile. Anche adesso non può più esistere qualche fan di Newton che non consideri l’enorme debito di lui verso Descartes e non abbia chiaro il contributo dell’olandese alle idee e teorie dell’inglese. Ma, se si considera l’illustrazione cartesiana dell’arcobaleno dobbiamo restare senza fiato. Un Arcobaleno non può essere “visto in prospettiva”. Un Arcobaleno deve apparire come un arco di cerchio più o meno completo, magari doppio e con altri aggettivi ma, ovviamente non può apparire “in prospettiva”. Ma, anche se non può apparire in prospettiva può essere disegnato in prospettiva ed è quello che Cartesio fa direttamente o chiede al suo disegnatore di eseguire. È chiaro che il vero messaggio del disegno altro non è che la ricostruzione ideale e “modellistica” di ciò che è accaduto dentro una singola goccia, l’ipotesi della tripla riflessione con conseguenti uscite del raggio dalla sfera della goccia seguendo diverse angolazioni rispetto al terreno. Ma, il disegno è così corretto dal punto di vista realistico-accademico da imporre che il piede dall’arcobaleno più prossimo all’ipotetico disegnatore debba apparire di dimensioni decisamente maggiori di quello remoto (fig. 12).

 

fig.12 L’attitudine scientifica di Cartesio e il suo sistemare l’illusione prospettica al suo posto per far campeggiare l’argomentazione scientifica indicata dal percorso della luce nella goccia sferica di acqua, qui è, come dire, superata, dalla estrema disinvoltura con cui Vincenzo Scamozzi più di un secolo prima si permette di far notare come anche il corpo umano, la forma definitiva e modello della realtà possa essere “manipolato” da una illusione ottica.

Quando Marcus Gheeraerts, nel 1592 circa dipinge Queen Elisabeth the First in atto di riappacificazione con un suo disobbediente e imbarazzante suddito, la rappresenta con un arcobaleno tenuto delicatamente nel pugno appena chiuso per non turbarne i colori, ma anche per non “farsi male”. Immaginate l’assurdità di rappresentare l’arcobaleno “in prospettiva” in questo caso dove esso altro non deve essere che una precisa idea del potere politico, dell’equilibrio e della gravitas monarchica. Non dice la scritta: NON SINE SOLE IRIS? Non ci può sfuggire che l’arcobaleno è più una solida lucida sbarra curva, un potente attrezzo del potere e qui le gocciole non hanno posto. Ma solo la volontà regale. (5)

In queste ultime pagine in cui la minuscola “storia dell’arcobaleno” sta per concludersi il ritorno indietro nel tempo si sta facendo necessario e costante (fig.13).

 

fig.13 Nel 1920, ad Hagen, Bruno Taut pubblica il suo der Weltbaumeister. Pensato in origine come uno “spettacolo architettonico per musica sinfonica” venne illustrato perso- nalmente e con grande entusiasmo da Taut medesimo. Qui, per terminare il breve studio sull’Arco di Luce abbiamo scelto l’immagine che l’architetto medesimo commenta con “pioggia intensa … arcobaleno blu, giallo, rosso, verde sullo sfondo azzurro … “

Non ci deve, quindi sorprendere come questo preciso evento atmosferico possa, al termine delle Metamorfosi di Ovidio, divenire un simbolo del potere politico, un vero vincolo tra terra, ossia città e cielo ossia luce. 

Come chiaramente indicato nelle Metamorfosi (Libro XIV, vv. 820-851) il progetto politico augusteo di implementare nella struttura di potere romano il vecchio Pantheon porta Iride direttamente sul Quirinale e la inserisce astutamente nel disegno politico generale. (6)

Non dobbiamo, in questo caso, troppo scandalizzarci se individuiamo in Ovidio finalmente il cantore del potere politico, l’uomo di corte, l’elegantissimo seduttore a due centimetri dalla modesta sedia dove augusto, pensosamente, lo sta ascoltando ma, già meditando la sua fine sulle sponde di un mare oscuro, nero, freddo. Infinitamente remoto e senza alcuna speranza di arcobaleni. 

Aveva appena
detto ciò e Venere si fermò in mezzo al Senato, 

invisibile a tutti e, toglie al corpo
del suo Cesare l’anima e non la lascia
dissolversi ma la porta tra gli astri celesti.
E mentre la porta, vede che si illumina e brucia
e la lascia andare dal seno: vola più alta
della luna e, trascinandosi per lungo tratto una coda

fiammeggiante, diventa una fulgida stella e, vedendo

le imprese del figlio
ammette che sono
più grandi delle sue. 


(1) Giorello, G.; Greco, A. (a cura di) “Goethe scienziato” Einaudi, 1998. In particolare si segnalano i capitoli “La teoria dei colori goethiana alla luce della nuova fenomenologia” di Herman Schmitz (p. 125-147) e “La fecondità della concezione scientifica di Goethe per il presente” di Jochen Bockemühl. Anche il bel volume magnificamente illustrato dalle fotografie di Dario Lanzardo, “Omaggio a Goethe. Forme e colori in Natura”, Museo di Scienze Naturali di Torino, 2000: opera estremamente interessante, oltre ad essere esteticamente molto ben riuscita.
(2) La poesia cui si fa riferimento nel testo è pubblicata con altre novantanove in Goethe, J.W. “Cento Poesie” (scelte da Siegfried Unseld), Einaudi, 1997. La poesia è “Die Metamorphose der Planzen” (p. 147), datata 1798. I pochi dati biografici sono facilmente ricavabili da: Goethe, J.W. “Italian Journey” Penguin books, 1970 e Santoli, V. (a cura di) “J.W. Goethe – Opere” Sansoni Editore, 1960.
(3) Naturalmente, non è questo il luogo per introdurre eccessive notazioni bibliografiche su Jheronimus Bosch, può essere qui sufficiente alludere al complesso e ricco studio di Caterina Limentani Virdis “Settantamila veli di luce e di ombra” in “Le Delizie dell’Inferno. Dipinti di Jeronimus bosch e altri Fiamminghi restaurati” (pp.15-50); oltre al controverso ma molto ampio studio di Charles de Tolnay “Einführung in das Werk des Hieronymus Bosch”, Baden-Baden, Holle, 1973. Altre notizie importanti derivano, naturalmente da “L’opera completa di Bosch”, (presentazione di Dino Buzzati e apparati critici e filologici di Mia Cinotti), Rizzoli, 1966. 
(4) Solo per informazione si include una indicazione bibliografica sul complicato problema del “significato” della sfera e sui suoi dubbi ma interessanti collegamenti con la moneta del Pisanello. Sul problema si può vedere: Marini, P. (a cura di) “Pisanello” Electa, 1996; in particolare, le p. 410-411 dove la medaglia è riprodotta con molto dettaglio. 
(5) I due non molto noti ritratti di Elisabetta I, eseguiti forse entrambi da Marcus Gheeraerts attorno al 1592 intendono rappresentare due momenti significativi del potere politico ma anche della determinazione psicologica della sovrana. Il caso dell’arcobaleno indica con chiarezza che la Sovrana ha deciso di perdonare ad un suo suddito che ha avuto l’ardire di “Divenire lo schiavo di una donna straniera”, si trattò di una certa Anne Vavassour ed Elisabetta ne fu molto adirata. Essa poggia con estrema convinzione i suoi piedi regali proprio sull’Oxfordshire tenuta del fedifrago e infedele suddito. 
(6) Solo un breve cenno alla deriva politica cui tendono le “Metamorfosi” ovidiane. Dopo aver esplorato il complicato mondo delle mutazioni, dei sensi, degli orrori simulati o reali, delle risposte delle epidermidi, Ovidio si accosta, al chiudersi del poema, al potere. Troppo tardi, forse.

(Tratto da/from: Nota Bene. I linguaggi della comunicazione. Over the rainbow, n.2, Anno IV, Fausto Lupetti Editore, Milano 2012. ISBN 978-88-97686-35-4)