La trasformazione del paesaggio urbano: dalla storia alla globalizzazione

Arte, contemporaneità, storia. 

“Muji City” prodotto da MUJI

La concezione del tempo rappresenta, oggi, una sfida e una necessità. Una sfida perché tutto ci suggerisce che stiamo vivendo all’interno di un sistema che si colloca definitivamente al di fuori della storia. E una necessità in quanto, per tutti coloro che sono esclusi dal sistema globale, la questione della fine della storia significa la perdita di ogni speranza ed è quindi portatrice di violenza. Nell’interrogarsi su quale potrebbe essere la concezione del tempo nel contesto della globalizzazione economica e tecnologica, può essere utile effettuare un’incursione per trattare la questione dell’arte e dell’estetica. L’arte e, più diffusamente, la creazione artistica o letteraria, sollevano in effetti il problema della contemporaneità. Sotto diversi aspetti, esse testimoniano il nostro rapporto con il tempo e, più precisamente, il nostro rapporto simultaneo con il passato e con futuro che, quando è condiviso, definisce una forma di contemporaneità. Per rispondere alla domanda ‘che cosa significa oggi essere artista o creativo?’ è necessario porsi diversi interrogativi, tutti di natura antropologica e, in particolare, cercare di rispondere alle tre seguenti domande seguenti: 

1) Che cosa significa ‘appartenere al proprio tempo’?
2) Cosa significa oggi ‘il nostro tempo’?
3) Dove si trovano i punti di contatto tra la nostra epoca e la creazione artistica o letteraria? 

Michel Leiris nel suo saggio Le ruban au cou d’Olympia propone due osservazioni contrastanti. Da una parte, sottolinea che nella vita può arrivare un momento in cui si può avere l’impressione di non appartenere più pienamente all’epoca in cui tuttavia continuiamo a vivere. Questa sensazione può essere particolarmente frustrante per il creativo – scrittore o artista che sia – il quale constata di non avere più niente da dire sulla sua epoca perché quest’ultima non ha più niente da dirgli. Ma Michel Leiris fa anche notare come sia sempre difficile definire o individuare le caratteristiche specifiche dell’epoca in cui viviamo. Guardando indietro, verso il passato, possiamo invece percepire più chiaramente gli elementi che pongono in collegamento un artista o un autore con il suo tempo. In pittura, il dettaglio sembra essere uno degli elementi in grado di segnalare la pertinenza di un artista rispetto al suo tempo e, non di meno, la sua presenza o, se vogliamo, il suo sopravvivere nella storia dell’arte. Il ‘dettaglio’ può quindi apparire in retrospettiva come un promettente segno di pertinenza storica. Il nastro di raso nero intorno al collo di Olympia, quel misero collare, quel piccolo lusso nella povertà, evoca a distanza l’interesse e l’attenzione di Manet nei confronti della gente del popolo e, più in generale, verso la città e la rivoluzione industriale: un interesse assente nel resto dell’arte dell’epoca e, ancor di più, nella nobile arte del ritratto. Ma Manet era un artista inquieto, deluso di non veder riconosciuto dai suoi contemporanei il proprio valore. Dovrà passare del tempo prima che sia riconosciuto il suo essere in piena sintonia con l’epoca, la sua ‘pertinenza’, e che la sua ‘presenza’ venga consacrata agli occhi dei posteri. In conclusione, deve essere motivo di speranza per l’artista o l’autore contemporaneo il fatto che egli possa ritrovare in alcune opere del passato tracce di pertinenza storica e che risulti sensibile alla loro presenza (queste gli parlano ancora). 

La contemporaneità non è l’attualità.
Il paradosso è che quindi un’opera è veramente contemporanea soltanto quando è sia originaria (dell’epoca) che originale, quando non si accontenta di riprodurre l’esistente. Sono coloro che innovano, e che eventualmente sorprendono o disorientano, quelli che
poi in retrospettiva risulteranno appartenere pienamente al loro tempo. C’è bisogno del passato e del futuro per essere contemporanei. In altri termini, l’arte si misura sulla capacità che ha di stabilire relazioni, ovvero sulla sua capacità simbolica. Senza audience, senza pubblico, l’arte è una prova di solitudine assoluta. L’arte ha l’obbligo di essere sociale. Questa capacità simbolica si afferma ancor più quando riesce a sopravvivere al tempo e rimane attuale anche quando la domanda di cui è oggetto si evolve o cambia. Se prescindiamo dalle leggi del mercato dell’arte
– dobbiamo ammetterlo, cosa oggi alquanto difficile
– si arriva alla conclusione che la legge della domanda e dell’offerta nell’arte tende quasi ribaltarsi: l’offerta dell’artista è in forma di domanda (mi comprendete?) e la domanda del pubblico è in forma di invito (ha qualcosa da dirci?). 

In sintesi, oggi come ieri, l’opera si misura facendo riferimento a tre parametri:
a) Il suo essere inscritta in una storia specifica, la storia ‘interna’, foss’anche a titolo rivoluzionario.
b) Il suo articolarsi rispetto al proprio tempo, la sua esistenza in rapporto alla storia ‘esterna’, contestuale, sebbene questa non si manifesti che a distanza.
Questi due primi parametri definiscono la ‘pertinenza’ di un’opera, pertinenza si rispetto alla sua epoca che alla storia dell’arte.
c) La sua capacità simbolica, nonostante questa possa manifestarsi in ritardo. 

La capacità simbolica dell’opera è la sua attitudine a stabilire un legame (intellettuale, affettivo e sociale) con coloro che la scorgono. Essa definisce la presenza di un’opera. 

In quanto al nostro tempo, il tempo in cui abbiamo l’impressione di vivere oggi, si tratta di un tempo accelerato che ci obbliga a confrontarsi con altri tre paradossi che si aggiungono a quelli individuati finora. 

Il primo paradosso, già evocato precedentemente, è di ordine spazio-temporale. La misurazione del tempo e dello spazio cambia. La Terra non è che un punto infinitesimale rispetto al quale misuriamo in anni-luce la distanza dalle stelle, ma i cambiamenti sulla Terra sono tali che per misurarli avremo bisogno di intervalli brevi.
Il secondo paradosso è la comparsa di un nuovo spazio- tempo che oggi sembra consacrare la perennità del presente, come se l’accelerazione del tempo fosse tale
da impedire di percepire il suo trascorrere. Da qui, la pregnanza dello spazio nel tempo. La contrapposizione di globale e locale appartiene alla geografia e alla strategia. Riprendiamo brevemente le caratteristiche della nuova dimensione spazio-temporale in cui sembra essere inscritta la vita economica e politica del pianeta: 

a) Il riferimento a una dimensione di scala planetaria è naturalmente all’opera nelle rappresentazioni della globalizzazione economica e tecnologica, ma anche nella coscienza ecologica e nella coscienza sociale di chi con preoccupazione assiste alla crescita del divario tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri. Uniformità e disuguaglianza camminano dello stesso passo. 

b) La circolazione di immagini e messaggi intorno al globo e in ogni angolo del pianeta rappresenta quella che possiamo definire ‘cosmotecnologia’. Contemporaneamente si assiste alla diffusione sul pianeta di spazi del codice. Questi spazi della comunicazione, della circolazione e del consumo, questi ‘non-luoghi’ – per riprendere un concetto avanzato nel 1992 – sono riservati a degli utenti individuali e non prevedono la creazione di particolari relazioni sociali durevoli. In questi non- luoghi coabitano provvisoriamente delle individualità, dei passeggeri, dei passanti.

c) A questo sistema che scompone la Terra in caselle senza però avvolgerla, corrisponde una teoria sulla fine della storia formulata da Fukuyama, che in un certo senso è stata anticipata da Lyotard quando ha evocato la fine dei ‘grandi racconti’. La fine della storia non è la fine degli avvenimenti, ma è l’affermazione di una posizione generale che sancisce la natura definitiva della formula che associa economia di mercato e democrazia rappresentativa. La fine dei grandi racconti era messa in relazione, da un parte, con la scomparsa delle cosmogonie particolaristiche (ovvero, proprie di un determinato gruppo) per effetto della modernità del XVIII secolo e, dall’altra, con la scomparsa dei miti escatologici universalistici e delle visioni sul futuro dell’umanità con la comparsa della condizione post- moderna, figlia delle disillusioni del XX secolo. 

Il terzo paradosso, estensione del secondo, è che la nuova ideologia del presente è quella di un mondo che, se potessimo prescindere per un momento dalle apparenti evidenze diffuse dall’attuale sistema politico e tecnologico, ci apparirebbe per quello che è: un mondo in piena eruzione storica. Il progresso scientifico non ha mai seguito un ritmo tanto veloce. L’idea che oggi possiamo farci dell’universo, ma anche dell’uomo, è destinata in pochi anni a subire cambiamenti radicali. D’altro canto, è la prima volta nel corso della storia che ci troviamo ad affrontare quelle che sono le sfide di una storia planetaria comune in via di realizzazione. Infine, con l’urbanizzazione del mondo stiamo vivendo un cambiamento paragonabile, secondo il demografo Hervé Le Bras, a quello del passaggio dal nomadismo all’agricoltura. 

Se i punti di contatto tra la creazione artistica e il tempo in cui viviamo sono oggi così difficili da individuare, è proprio a causa di un tempo talmente accelerato da diventare inafferrabile, del monopolio del linguaggio spaziale su quello temporale; la supremazia del codice (che prescrive comportamenti) sul simbolico (che stabilisce relazioni) ha delle ripercussioni dirette sulle condizioni della creazione. Il mondo circostante e l’epoca in cui vive si mostrano all’artista attraverso forme mediatizzate – immagini, avvenimenti, messaggi – le quali, già di per sé, rappresentano gli effetti, gli aspetti e i principi del sistema globale. Questo sistema è l’ideologia di se stesso; contiene in sé le proprie istruzioni d’uso; diventa letteralmente lo ‘schermo’ della realtà che sostituisce, o meglio, della quale prende il posto. Il disagio e lo smarrimento degli artisti di fronte a questa situazione sono anche i nostri o, piuttosto, tendono ad amplificarli a tal punto che, anziché porci il problema della loro pertinenza rispetto ai tempi, ci interroghiamo sulla natura e il significato della loro presenza: cosa hanno da dirci? 

Per questo talvolta possiamo avere l’impressione che gli architetti siano i grandi artisti del nostro tempo. Essi sposano la propria epoca, elaborandone le immagini e i simboli. I più celebri erigono in ogni angolo del pianeta delle ‘singolarità’, nella doppia accezione del termine: opere singolari perché segnate e contrassegnate da uno stile personale, e opere concepite, al di là della loro giustificazione locale, come curiosità planetarie in grado di attirare flussi turistici da tutto il mondo. Il colore globale ha preso il posto del colore locale. 

Il paesaggio surmoderno è un paesaggio essenzialmente urbano, ma bisogna aggiungere che l’urbanizzazione trasforma la città urbanizzando il pianeta. L’estensione del tessuto urbano è un fenomeno che corrisponde alla moltiplicazione degli spazi di circolazione, di consumo e di comunicazione. Questa moltiplicazione ha a sua volta degli effetti sullo spazio urbano e sullo sguardo che lo riconosce come paesaggio.
Le grandi città si definiscono innanzitutto per la loro capacità di importare o esportare uomini, prodotti, immagini e messaggi. Da un punto di vista spaziale, la loro importanza si misura sulla qualità e l’ampiezza della rete autostradale e ferroviaria che le collega ai rispettivi aeroporti. La loro relazione con l’esteriore si inscrive nel paesaggio nel momento in cui i cosiddetti centri ‘storici’ costituiscono sempre più un oggetto d’attrazione per i turisti del mondo intero. 

Allo stesso tempo, le opere più significative dell’architettura mondiale sembrano alludere a una società planetaria ancora assente. Rappresentano luccicanti frammenti di un’utopia esplosa, di una società della trasparenza che ancora non esiste affatto. In un certo senso, alimentano le illusioni dell’ideologia del presente, sono espressione del trionfo del sistema nei nodi cruciali della rete planetaria. Allo stesso tempo, configurano qualcosa che appartiene all’ordine dell’utopia e dell’allusione designando, e disegnando, un tempo che non è ancora arrivato, che forse non arriverà mai, ma che rimane nell’ordine del possibile.
In questo senso, il rapporto con il tempo espresso dalla grande architettura urbana contemporanea riproduce capovolgendolo il rapporto con il tempo espresso dallo spettacolo delle rovine. Le rovine contengono troppa storia per esprimere una storia. Ciò che esse ci mostrano non è la storia. Al contrario quello che percepiamo è l’impossibilità di immaginare tutto quello che rappresentavano agli occhi di coloro che le vedevano prima che queste diventassero delle rovine. Le rovine ci fanno percepire il tempo della storia, ma il tempo, il tempo puro.
Quando contempliamo le piramidi maya nella foresta tropicale del Messico o del Guatemala, oppure i templi di Angkor che emergono dalla foresta cambogiana, abbiamo sotto gli occhi uno spettacolo inedito che non ci mostra alcuna storia: rovine si innalzano sulle rovine per ritornare alla natura appena vengono abbandonate dagli uomini. Quello che proviamo di fronte allo spettacolo delle rovine è l’impossibilità di percepire e comprendere la storia, una storia concreta, datata e vissuta. Poiché anche questa impossibilità è percepibile. La percezione estetica del tempo puro è percezione di un’assenza, di una mancanza. Questa coscienza della mancanza è relativa all’appercezione estetica dell’opera originale. Per questo le copie riconosciute come tali deludono: mancano di mancanza.
E sappiamo bene che se oggi un pittore dipingesse come Rubens o come qualsiasi altro grande classico non desterebbe l’interesse di nessuno poiché le opere di Rubens, come quelle dei più grandi classici, sono percepite tuttora come presenti e pertinenti.
Ma ciò che è vero del passato è probabilmente vero anche del futuro. Il tempo puro è indifferentemente passato (sebbene non si tratti della storia) o futuro (sebbene sia estraneo alla prospettiva o alla pianificazione). La percezione del tempo puro è la percezione presente di una mancanza che struttura il presente orientandolo verso il passato o l’avvenire. una percezione che sorge sia di fronte allo spettacolo dell’Acropoli che al museo di Bilbao. L’Acropoli e il museo di Bilbao posseggono un’esistenza allusiva, una forte presenza che mostra un’indefinibile pertinenza. 

Oggi gli artisti e gli scrittori sono probabilmente condannati a ricercare la bellezza dei non-luoghi, a scoprirla opponendo resistenza alle prove evidenti dell’attualità. Vi si dedicano ritrovando il carattere enigmatico degli oggetti, delle cose private di ogni esegesi o istruzione d’uso; mettendo in scena e assumendo per oggetto i media (che vorrebbero presentarsi come mediazioni) e rifiutando il simulacro e la mimesi. L’ermetismo dell’arte, oggi, consiste nel prendere per oggetto le evidenze del contesto per destrutturarle. Del resto è sempre stato così, ma oggi l’arte si scontra con l’invadenza delle immagini, con la confusione tra realtà e fiction, con avvenimenti mediatizzati e definiti dalla loro mediatizzazione, con il regime dell’evidenza e con il liberalismo che recupera l’arte per farne un prodotto di mercato, assegnarla alla residenza museale o, più semplicemente, ignorarla. Il processo di accelerazione della storia rende ancor più difficile valutarne la pertinenza e la presenza rispetto ai modelli del passato e alle aspettative del futuro. 

L’arte contemporanea subisce costantemente la minaccia di essere fagocitata dal consumo planetario. L’organizzazione della vita artistica attraverso le fondazioni, le biennali e i forum, configura un mercato dell’arte che ha tutte le sembianze del mercato liberale globale. Per contro, una simile situazione rende evidente la necessità di un’arte distaccata che non si lasci assorbire dalla cultura dominante (Dubuffet, nel suo pamphlet Asphyxiante Culture, edito dalle Editions de Minuit, agli inizi degli anni Ottanta aveva scritto che il primo dovere dell’artista era di sfuggire alla cultura). Ma è altrettanto chiaro quanto sia difficile perseguire questa auspicabile ‘presa di distanza’. Yves Michaud, ne’ L’art à l’état gazeux, afferma che l’estetica ha preso il posto dell’arte, che la grande arte è morta, che l’arte contemporanea è un’esperienza legata al mondialismo alla stregua del turismo di massa, che non esistono più opere, aura e contemplazione, ma soltanto delle mode. Le attitudini e gli atteggiamenti avrebbero preso il posto delle opere: eventi, incontri, perfomance e installazioni non sarebbe altro che una reduplicazione del contesto. in altre parole, il contenuto dell’arte consisterebbe nel contesto. L’arte pur avendo mantenuto una certa pertinenza (rispetto all’epoca), avrebbe perso ogni presenza, ogni capacità simbolica, rifuggendo le evidenze dell’immagine soltanto attraverso una nuova forma di ermetismo. 

Si tratta di una posizione indubbiamente troppo severa o troppo pessimistica; tuttavia ha il merito di evidenziare quanto, nell’arte come altrove, il contesto ha subito un tale sconvolgimento che oggi è necessario ripensare con urgenza le condizioni della pertinenza, ristabilendo il legame tra storia interna e storia esterna, tra storia della disciplina e storia del contesto.
In altre parole si tratta, per gli artisti, ma anche per gli osservatori della società e per i politici, di ritrovare il senso del tempo, al di là della coscienza storica, per costruire una contemporaneità reale. Nel bene e nel male, arte, società e storia sono solidali. Le contraddizioni della grande architettura urbana e lo spettacolo della città contemporanea ne sono la dimostrazione. 

La trasformazione del paesaggio urbano: dalla storia alla globalizzazione. 

Il paesaggio, in particolar modo il paesaggio urbano, riflette senza dubbio la natura del mondo attuale. La città è cambiata. Del resto la scenario urbano è sempre stato territorio di decostruzione e ricostruzione. Nelle città europee i monumenti storici si sono accumulati nel corso dei secoli, dando luogo a una stratificazione irregolare e complessa. Nel periodo storico in cui l’Europa si accingeva a colonizzare il mondo intero, il modello urbano tipico del Vecchio Continente è stato esportato in tutto il mondo: le città coloniali sono state edificate come replica della città europea. Fino al XX secolo, quest’ultima si è sviluppata per accumulazione e sovrapposizione di storia, stili e genti. Basti pensare alla Parigi moderna descritta da Baudelaire: una distesa di differenti architetture, testimonianza del succedersi di periodi storici che si confondevano e ritrovavano unità nel paesaggio sotto i suoi occhi. In quell’epoca la capitale francese, come molte altre città europee, viveva una vera e propria rivoluzione del tessuto urbano. “La Parigi di un tempo non esiste più” constatava il poeta che osservava con sguardo critico, altre volte romantico, la modernità di una città dove le ciminiere fumanti delle fabbriche e gli antichi campanili delle chiese condividevano lo stesso cielo. La possibilità di poter percepire accumulazione e sovrapposizione presuppone però una certa distanza. è proprio dalle alture del cimitero di Père-Lachaise che, nell’ultime pagine del Papà Goriot di Balzac, Rastignac contempla la città di Parigi gettando il suo sguardo tra la colonna di Place Vendôme e la cupola della Chiesa degli Invalidi. Il panorama è quello di un mondo aggrovigliato, di un labirinto tortuoso adagiato sulla Senna. Ma la visibile stratificazione di periodi storici diversi, la coesistenza di più stili, la coabitazione di antico e nuovo – che per molto tempo ha rappresentato un vero e proprio paradigma urbano – non caratterizza più il paesaggio contemporaneo. La sensazione è che quel genere di modernità non sia più proponibile. Solo in rarissimi casi possiamo osservare paesaggi urbani che continuano a evocare la modernità della Parigi di Baudelaire. è venuto meno quel gusto per l’accumulazione che nel corso dell’Ottocento, tra l’altro, aveva segnato la diffusione dei musei anche se con l’intenzione di catalogare e classificare distintamente periodi storici e generi. Oggi i musei si sono trasformati e suscitano più curiosità come monumenti che per il patrimonio custodito al loro interno. La moltiplicazione degli spazi di circolazione e di comunicazione ha prodotto i suoi effetti non solo sullo spazio urbano, ma anche sul modo di guardare al paesaggio. Il patrimonio artistico, culturale e naturalistico si presenta come un oggetto di consumo più o meno decontestualizzato, o come un oggetto il cui vero contesto è il mondo della circolazione planetaria o surmodernità. La surmodernità non si contrappone alla modernità, ma ne è al contrario un prolungamento: è l’accelerazione e la complicazione degli effetti della modernità per come era stata concepita nel XVIII e nel XIX secolo. Il paesaggio surmoderno è un paesaggio essenzialmente urbano, risultato dell’accelerazione della storia, della contrazione dello spazio, dell’individualismo consumistico. E l’urbanizzazione ha trasformato la città urbanizzando il pianet. La tendenza è quella di isolare i quartieri storici nella loro purezza, facendone degli autentici musei a cielo aperto, luogo di visita per i turisti; mentre la parte vitale della città è dislocata all’esterno. Abitiamo sempre più un mondo di giustapposizioni anziché di coniugazioni. Abbiamo perso lo spirito di quella modernità che, senza soluzione di continuità, si ricongiungeva alla storia attraverso l’accumulazione. L’esplosione della città ha trasformato ogni brano urbano in una sorta di periferia. L’architetto e urbanista Bernard Huet fa risalire una certa forma di contrapposizione tra architettura e città al Movimento Moderno impegnato a fronteggiare la crisi degli alloggi urbani tra le due guerre mondiali. Le Unité d’habitation progettate da Le Corbusier avevano inaugurato il concetto di appartamento come cellula-base per la gestione razionale degli alloggi di massa nella società industriale. Un processo che andava in direzione della monumentalizzazione dell’alloggio, rivestito di tutti gli attributi dell’opera d’arte. Huet fa però notare che la singolarizzazione delle unità abitative comporta un rischio: l’architettura diventa il risultato del ripiegamento del progettista su se stesso, pura espressione della sua individualità artistica, a discapito di qualsiasi riferimento al contesto e alla storia. Così le attuali periferie urbane evocano un museo disordinato, messa in scena di singolarità autonome che si impongono laddove si dissolve la città storica. Ebbene nel mondo surmoderno sottoposto alla triplice accelerazione della conoscenza, della tecnologia e del mercato aumenta il divario tra la rappresentazione di una modernità senza frontiere in cui beni, persone, immagini e messaggi circolano liberamente e la realtà effettiva di un pianeta diviso, frammentato. Una realtà in cui le divisioni che l’ideologia del sistema si ripromette di eliminare, di fatto, sono l’elemento fondante del sistema stesso. Ogni giorno, all’immagine del mondo-città – o della meta-città virtuale, secondo la definizione di Paul Virilio- che descrive l’intero pianeta come un’unica grande rete di circolazione e comunicazione, si contrappone la dura realtà delle città del mondo dove si manifestano e si scontrano le differenze e le disuguaglianze. Il processo di urbanizzazione si traduce principalmente in due fenomeni: da un lato la crescita dei grandi centri urbani già esistenti, dall’altro la comparsa e l’estensione lungo le vie di comunicazione, i fiumi e le coste marittime di quelli che il demografo Hervé Le Bras ha chiamato ‘filamenti urbani’. La diffusione di filamenti urbani che saldano tra di loro le città esistenti lungo le vie di circolazione, i fiumi o le coste marittime disegnano un tessuto tanto interconnesso da configurarsi come una grande meta-città virtuale. Il diffuso ‘collegamento virtuale’ di tutti i grandi centri urbani trasforma il mondo intero in una sconfinata città (le monde-ville). Come se le aree più urbanizzate del pianeta non fossero altro che frammenti di un unico mondo-città. 

Ma, a sua volta, ogni città tende a diventare essa stessa un ‘mondo’ (la ville-monde) abitato da gente proveniente da ogni angolo del pianeta e pervaso da un flusso incessante di informazioni che esalta le interrelazioni di distanza e rende marginali le relazioni di prossimità immediata. è dunque altrettanto vero che ogni grande città è un mondo: le differenze culturali, sociali, religiose ed economiche ospitate fanno di ogni singolo centro urbano una sintesi e una ricapitolazione del contesto globale. E anche se tentati dall’affascinante spettacolo della globalizzazione tendiamo a dimenticarlo, la discriminazione abita ancora un tessuto urbano lacerato e diviso da frontiere e barriere. Quando parliamo di città parliamo anche di quartieri difficili, di ghetti, di povertà e di sottosviluppo. Oggigiorno una grande metropoli racchiude anche tutte le differenze e le disuguaglianze che caratterizzano il mondo intero. Così come nelle città del Terzo Mondo possiamo trovare quartieri di affari collegati alla rete mondiale, anche nelle più grandi città del mondo occidentale possiamo ritrovare tracce di sottosviluppo. Il concetto di città-mondo contiene già in sé i presupposti per smascherare l’illusione di una città diffusa senza muri, separazioni e barriere. L’esperienza quotidiana sia su scala individuale che locale ci conferma come in realtà il mondo globale è quello delle limitazioni, delle discontinuità e dei divieti. Quando, invece, l’estetica dominante è estetica delle distanze che si preoccupa di cancellare rotture e difformità: le foto scattate dal satellite, le riprese aeree ci abituano a un’immagine globale delle cose. Autostrade, treni ad alta velocità, collegamenti aerei intercontinentali: tutto ciò restituisce l’immagine di un mondo globale, come ci piacerebbe che fosse. Stiamo anche assistendo alle prime forme di turismo spaziale e alla visione del pianeta Terra come paesaggio visto dall’alto a centinaia di chilometri di distanza. 

Nell’antropologia architettata dalla società dei consumi l’essere umano è già dipendente dalle protesi che lo investono: bisogna consumare per esistere e il culmine dell’esistenza è riuscire a passare dall’altra parte dello schermo, farsi immagine. La telerealtà, come anche la creazione di siti personali sulla Rete, traducono la necessità di questo passaggio all’immagine, senza dimenticare ciò che potremmo chiamare la ‘pregnanza della fiction’, un fenomeno non nuovo (al largo di Marsiglia si può visitare la segreta del conte di Montecristo, protagonista del romanzo di Alexandre Dumas), ma che oggi è generalizzato e trae origine dalle immagini viste sullo schermo anziché dalle elaborazioni dell’immaginazione. Oggi non solo i turisti cercano di ritrovare a New York i luoghi di serie televisive americane come Sex & the City, ma accanto a Eurodisney è sorta una vera e propria città che somiglia molto a quella fictional dell’immaginario Disney e chi vi abita si ritiene molto fortunato di poter vivere in questa città da sogno. Di fronte all’immagine della città-mondo si può avere l’impressione che la città in quanto tale non esista più. Indubbiamente i cambiamenti che hanno interessato l’organizzazione del lavoro, la precarietà (il lato oscuro della mobilità) e i nuovi media impongono un’immagine in cui le tradizionali opposizioni città/campagna e urbano/non-urbano perdono di significato. Il mondo-città e la città-mondo appaiono intrecciati l’uno all’altra, ma in modo contraddittorio: il mondo-città rappresenta l’ideale e l’ideologia del sistema della globalizzazione, mentre nella città-mondo si esprimono le contraddizioni e le tensioni storiche generate dal sistema. 

La contrapposizione tra mondo-città e città-mondo riflette il sistema della storia e, per certi versi, ne è la traduzione spaziale o paesaggistica concreta. La preminenza del sistema sulla storia e del globale sul locale ha conseguenze nell’ambito dell’estetica, dell’arte, dell’architettura. Ogni contesto locale, oggi, è anche contesto globale; proprio per questo, paradossalmente, l’architettura urbana rappresenta la massima espressione del sistema e rischia di esserne l’espressione più caricaturale (come quando a Time Square adotta l’estetica dei parchi di divertimento, o come quando a Disneyland mette in scena il regno della fiction). Se l’architettura dà letteralmente forma alle illusioni dell’ideologia presente, esprimendo un’estetica della trasparenza, del riflesso e dell’altezza che è derivazione diretta dell’estetica della distanza, allora, nel tener in vita un simile immaginario e nel segnare la vittoria del sistema presso i nodi principali della rete planetaria, l’architettura urbana assume una dimensione essenzialmente utopica. Gli esempi più significativi dell’architettura contemporanea sembrano alludere a una società planetaria ancora inesistente, ma alla quale vorremmo credere. Quindi su scala planetaria si parla di altri mondi, iniziamo ad assumere coscienza incerta grazie alla nostra capacità di immaginare. Gli urbanisti, come gli architetti un po’ come gli artisti, gli scrittori, sono condannati oggi forse a ricercare la bellezza dei non luoghi resistendo alle apparenti evidenze dell’attualità.
I non-luoghi empirici che compongono il paesaggio dominante del nostro nuovo mondo (aeroporti, ipermercati, stazioni ferroviarie, etc.) sono stati immaginati dai più grandi architetti come spazi comuni, se non propriamente pubblici, in grado trasmettere a tutti coloro che li attraversano in qualità di utenti, di passanti o di clienti che né il tempo né la bellezza sono assenti dalla loro storia. La città è sempre più il luogo di questa attesa e di questa speranza. Il nostro sguardo, educato dal cinema e della televisione, si posa su paesaggi assolutamente utopici. Mentre cerchiamo di gestire la nostra vita nella conquista del domani, continuano ad essere proiettate intorno a noi immagini di metropoli sfolgoranti di luci, sequenze cinematografiche di grattacieli ripresi dall’elicottero.
Ma nella dimensione spaziale si riproduce la crudeltà dell’esperienza temporale: la storia non finisce mai, mentre la vita individuale è breve. La dimensione utopica e sognata che caratterizza il paesaggio surmoderno come promessa di un’unità e di bellezza, anche se non dovesse essere disillusa dalle contraddizioni della storia non potrà comunque vedersi realizzata nell’arco della esistenza del singolo. è lo spettacolo di una città in trasformazione, come accadeva nel XIX secolo quando tutti i poveri del mondo rurale si precipitarono verso la città, i dannati di oggi preferiscono rischiare la morte per fuggire nelle grandi metropoli. E per quanto fallace o promettente sia, la luce della città continua a brillare. 


Trascrizione dell’intervento di Marc Augé al Secondo Convegno internazionale di studio “La città senza nome. Segni e segnali nel paesaggio contemporaneo” (Villa Romanazzi-Carducci, Bari | 22-23 ottobre 2009).