Design fuori luogo

Non ci muoviamo nella stessa maniera da una città all’altra. I nostri gesti sono più liberi in certi luoghi, più lenti in altri, più impacciati dove ci sentiamo sorvegliati, più nobili negli spazi che elevano lo spirito, più tesi e sulla difensiva in luoghi incivili. A Milano mi sento più nobile, a Parigi più rapido, a Zurigo più chiuso. In breve, gli spazi interferiscono sul nostro comportamento.

Alcuni luoghi, alcune situazioni generano aggressività, altri al contrario richiamano al rispetto. Sicuramente le circostanze dei fatti possono indurre di per sé un comportamento aggressivo, ma quest’ultimo assume forme ancor più violente nel contesto di oggetti e spazi che già mancano di rispetto e civiltà.

Di fatto, il designer – insieme al paesaggista, all’architetto e al light designer – interviene con l’obiettivo di migliorare questa quotidiana interazione tra individuo e ambiente. Se spesso viene recriminata al progettista la cattiva qualità relazionale di un oggetto, un segno, uno spazio, un processo o una situazione, siamo ancora lontani dal considerare il design come il diretto responsabile del sistema di interazioni che si manifesta nel nostro ambiente di vita. E, ancor meno, dall’imputare al design la natura dei flussi emotivi e delle sensazioni mentali e fisiche provate da chi si muove in un determinato luogo e in un particolare contesto sociale. Si tratta di aspetti difficilmente misurabili, quasi mai ricondotti direttamente alla responsabilità del progettista. I designer intervengono su queste relazioni senza sentire la responsabilità sociale che, per esempio, provano i medici; quest’ultimi, infatti, sono ben consapevoli di essere direttamente responsabili della salute dei propri paziente e, indirettamente, della salute di tutti i cittadini del paese. È evidente che tali aspetti fondamentali non sono contemplati nei progetti commissionati al designer, il quale – da parte sua – non si preoccupa affatto di sollevare simili riflessioni. Pertanto l’analisi dell’ambiente che ci circonda dimostra che gran parte dei segni, degli oggetti, degli spazi, dei processi e delle azioni con cui entriamo in relazione non presentano il rispetto che ci si aspetterebbe e sono complici della tristezza, del malessere e dell’aggressività diffusa.

Credo che, malgrado tutto, possa essere interessante provare a considerare queste entità non-umane come se fossero persone e testare in qualche modo il loro comportamento. Ad esempio, possiamo farlo per analizzare le iscrizioni presenti negli spazi collettivi, sia pubblici che privati (visto che oggi non c’è più molta differenza). La domanda-chiave è «In che modo mi parlano?». Tranne tutti gli avvertimenti che sono lì esclusivamente per infliggere pene in caso di comportamenti sbagliati, o quelli che si sollevano da ogni responsabilità, è possibile constatare che siamo continuamente interpellati, avvertiti brutalmente, comandati, inutilmente sedotti, raramente ringraziati e, ancor meno, rispettati come cittadini responsabili. Al contrario, veniamo considerati come parte di una folla, materiale umano da governare e disciplinare. Pochissime iscrizioni ci sorridono. E sono ancor meno quelle che non prendono le distanze e non prendono troppo sul serio la situazione e la comunicazione in atto. Sono rare le iscrizioni che si comportano – come direbbero gli inglesi – da veri gentlemen. Quasi nessuna ci porta rispetto. E di questo, consciamente o inconsciamente, ce ne accorgiamo. Da questo insieme di dispositivi si diffonde un’atmosfera in cui seduzione e autoritarismo si confondono. E questa dialettica risulta più che mai enfatizzata nell’attuale clima di sorveglianza. Naturalmente questa atmosfera cambia a seconda dei luoghi ed esistono ancora spazi accoglienti, ma il bilancio complessivo resta comunque negativo e la tendenza non promette bene. 

Ciò che è relativamente facile rilevare a livello delle iscrizioni, risulta più difficilmente decodificabile a livello degli oggetti e degli spazi. L’atmosfera rimane un dato complesso da decifrare e, fortunatamente, da dominare. Uno spazio, un oggetto o un segno sviluppato a partire da criteri economici, funzionalistici e di sicurezza – senza alcun interesse verso la qualità dell’interazione, la dimensione umana e sociale – considera l’estetica, come anche la poesia, delle inutili facezie. 

 

Parvis de Silos, Progetto di segnaletica – Intégral Ruedi Baur Paris

Se nei centri storici delle nostre città gli effetti della sovrapposizione di vincoli stabiliti da ingegneri, contabili e responsabili della sicurezza sono in parte compensati dalla presenza di edifici e di strutture urbane di qualità, altrettanto non avviene nei quartieri teatro di segregazione urbana (Ségrégation urbaine è infatti il nome scelto per il nostro programma annuale di ricerca su forme più civili di design, nell’ambito dell’istituto Design2context e del corso di studi Civic-city) e neppure in quelli che Marc Augé definisce non-luoghi. Oppure negli iper-luoghi descritti da Paul Virilio, popolati da individui neosedentari che vivono in città deterritorializzate dove i luoghi si ripetono uguali ovunque. 

Spazi che non rivelano direttamente delle destinazioni preferenziali (questi parcheggi, aeroporti, centri internodali, hotel, luoghi di ristorazione e queste fermate dei bus, sale d’attesa, scale mobili, stazioni ferroviarie e della metropolitana) rappresentano, tuttavia, dei luoghi in cui trascorriamo del tempo importante. 

I progettisti moderni, per risparmiare i propri sforzi formali agli spazi più nobili, hanno spesso trattati questi spazi pubblici con negligenza, lasciando ad altri il compito di trovare soluzioni puramente razionali.

A questo punto, è necessario riprendere la questione delle interazioni. Quelle tra i non-luoghi e gli individui – per non dire utenti – che li frequentano, generalmente obbligati a recarvisi e a passarci del tempo. Interazioni interessate principalmente da questioni di attesa, di circolazione e soprattutto di informazione necessaria alla fruizione di questi luoghi e all’accesso verso le destinazioni desiderate. Dunque, per funzionare, questi spazi necessitano di informazione più di altri. Si potrebbe anche os- servare che questi spazi dovrebbero essere espressamente pensati in risposta alle necessità di informazione reclamate da ciascun utente. Per esempio, sapere che ci troviamo nel posto giusto e avere la certezza che l’organizzazione con cui abbiamo a che fare funziona senza problemi ci rilassa, al di là dell’atmosfera da cui siamo circondati. Ma nell’ambito dell’approccio razionalista ancora dominante, questi non-luoghi sono concepiti sostanzialmente per rispondere a vincoli di flusso, sicurezza, informazione e commercio, senza alcuna preoccupazione per aspetti come l’atmosfera, il benessere, l’interazione. La logica della gestione della folla indifferenziata e indistinta appare contrapposta alla qualità dell’interazione individuale, alla valorizzazione delle peculiarità del luogo e del contesto. A livello grafico, nei non-luoghi si assiste all’invasione di non-segni – detti universali, ovvero ottimizzati – che sovrappongono tristezza alla tristezza e intercambiabilità alla decontestualizzazione. Segni senz’anima, posizionati su supporti rispondenti a esigenze di lettura ottimale, di riproduzione seriale e di resistenza alle aggressioni e all’effetto corrosivo.

A questo punto, è necessario mettere in discussione una delle credenze tanto sbandierate da chi difende un simile modello di luogo basato sul sistema della ripetizione. Da chi sostiene che gli spazi collettivi debbano necessariamente rispettare delle regole generalizzate e cita, come esempio, le logiche del sistema segnaletico stradale. Da chi ritiene possibile costruire la città attraverso le regole, da chi pensa che i problemi si risolvano a colpi di norme, nazionali e internazionali. Da chi difende l’ordine, visivo. Da chi oggi tenta di affrontare le complesse problematiche di accessibilità per i diversamente abili, imponendo anche in questi casi delle regole pensate per altri contesti e che, una volta applicate alla lettera, non soltanto rischiano di non funzionare ma soprattutto di lasciarci spazi ancor più squallidi. 

Questa credenza si riferisce alla nostra capacità di lettura dei segni e postula che un segno è leggibile soltanto quando è sempre identico a se stesso. Questa teoria tanto diffusa tra gli ingegneri, ma anche tra tanti designer, ignora una delle capacità più sviluppate nell’essere umano: la decodifica e la classificazione per categorie o per famiglie di segni. Così come siamo in grado di leggere un testo stampato in Times o in Bodoni, allo stesso modo, siamo in grado fin da piccolissimi di riconoscere un cane indipendentemente dal suo colore, dalla sua taglia e dalla varietà di forma con cui viene rappresentato, poiché facciamo riferimento a un codice interpretativo che abbiamo appreso molto presto. I ristoratori conoscono molto bene questo meccanismo: nonostante la moltitudine di segni impiegati per indicare le toilette per uomini e quelle per donne, è quasi impossibile trovarsi in difficoltà nel distinguere le une dalle altre. E anche se facessimo confusione, non sarebbe una tragedia. Infatti credo che, innanzitutto, sia fondamentale sdrammatizzare simili questioni. Un designer come Philippe Stark e il trattamento maestoso che ha riservato alla scalinata di accesso ai servizi igienici del caffè Coste hanno contribuito, negli anni Ottanta, ad alleggerire l’approccio puramente funzionale di questo genere di non-luogo, conferendogli uno statuto di rappresentazione. 

 

Parvis de Silos, Progetto di segnaletica – Intégral Ruedi Baur Paris

Se trasferiamo questa questione al caso, per esempio, di un parcheggio pubblico possiamo constatare che questa tipologia di spazio è connotata esclusivamente dalla razionalità del sistema con cui vengono posizionati i veicoli. Troviamo posto nel parcheggio, paghiamo e ci possiamo ritenere soddisfatti. Però sappiamo bene che questi spazi incutono paura. Un parcheggio sotterraneo gestito secondo l’approccio razionale finisce per assomigliare al set di uno degli innumerevoli film dell’orrore ambientati in questi luoghi. È noto che la sensazione di disorientamento sempre presente in questo genere di posti privi di prospettiva esterna, può infondere paure che, a loro volta, generano in noi ulteriore disorientamento. Per consentire un approccio sereno al luogo, è necessario interrompere questo processo psicologico emancipandolo dalla tradizionale rappresentazione lugubre. E la segnaletica può contribuire molto. Chiaramente, la sua funzione non potrà trascendere dal fornire indicazioni sulla direzione, ma l’obiettivo è quello di utilizzare questa interazione essenziale per cercare di sdrammatizzare la situazione. E il risultato non sarà certamente quello perseguito da un approccio funzionalista alla segnaletica. Un leggero slittamento visivo, una sottile autoderisione della situazione, un gesto poetico possono liberare l’individuo da questi stereotipi negativi e restituirgli una realtà diversa. Si tratta, dunque, di apportare un contributo d’autore in uno spazio anonimo. Anche se, beninteso, il fine è prima di tutto di poter parcheggiare la propria automobile, trovare facilmente l’uscita pedonale, ritornare alla propria vettura e lasciare il parcheggio. Non si tratta di interrompere questo processo e l’apporto dell’autore sarà tanto più corretto e pertinente quanto più sarà capace di confrontarsi con questa situazione. 

È proprio nell’attenzione prestata alle necessità dell’utente e all’atmosfera in cui quest’ultime trovano luogo che questi spazi conquistano qualità. La segnaletica gioca un ruolo cruciale. Essa può livellarsi alla tristezza dell’ambiente, essere pura- mente razionale – limitarsi a numerare, a mettere delle frecce e ordinare – oppure, può caratterizzare il luogo e la situazione, diventare strutturante e al contempo poetica, arrivando a produrre senso e immagine. Il punto non è rendere «credibili» questi posti, ma portarli fuori dall’anonimato dei non-luoghi. Fuori da questa diffusa sensazione di deresponsabilizzazione e disumanizzazione che troppo spesso li identifica.
Prendiamo in esame gli aeroporti. Nonostante il loro prestigio, per molto tempo sono stati considerati spazi internazionali neutri, al netto di qualsiasi espressione locale. Bisogna ammettere che c’è stato un periodo in cui l’espressione internazionale poteva sedurre per la sua capacità di discostarsi da un localismo chiuso e vecchio stampo. Ma nel momento in cui l’espressione internazionale diventa dominante al punto da eliminare tutte le differenze e da rappresentare la soluzione più semplicistica, bisogna domandarsi se davvero questo internazionalismo è ancora in grado di sedurre.
L’alternativa non è quella di ritornare al locale, ma di confrontarsi più intensamente con il contesto. Così possiamo considerare l’aeroporto come una zona internazionale, un altrove senza peculiarità in cui esprimersi attraverso questa lingua fondata su pittogrammi universali o, al contrario, trattarlo come la porta di accesso o di uscita di un territorio, come un luogo particolare con la sua storia, le sue specificità, le sue qualità. Pertanto è chiaro che si tratta più di contestualità che di localismo, più di espressione specifica che di globisch, più di creazione unica che di copia conforme e, dunque, più di invito alla scoperta che di visita guidata. 


(Tratto da/from: NB. I linguaggi della comunicazione, Foreste Urbane, N.3, Anno IV, Logo Fusto Lupetti Editore, Milano 2012.)